Che senso ha la comicità?

la risposta di Giacomo Poretti, del Trio “Aldo, Giovanni e Giacomo”

 

Parlare del riso, della comicità è uno degli argomenti più difficili da trattare; definire che cosa è l’allegria, la risata, perché succede, da dove arriva, è impresa ardua. In particolare per uno che di professione fa il comico. Non vi sembri contraddittorio, ma è così: è un po’ come chiedere al pittore perché ha dipinto in quel modo, perché ha usato quella tecnica, quei colori: non sempre si riesce a spiegare quello che si fa e perché lo si fa; in generale questo, se vale per tutti gli uomini, ancora di più vale per un artista e anche per un comico. L’artista quando è chiamato a spiegare la sua attività si mette nei guai: il meglio di sé lo ha già dato, è già tutto lì nella sua opera, tutti i tentativi di spiegarla diminuiscono l’efficacia e la forza dell’opera stessa. Il comico come tutti gli artisti è spesso istintivo, apparentemente poco riflessivo, agisce quasi in preda a qualche cosa che lo possiede: e qui cominciano le prime domande del pubblico: come fate a creare gli sketch? come fate praticamente a farvi venire le idee? come fate a far ridere? e ancora: “Ma allora l’artista, il comico, posseggono a priori un progetto, un disegno, un obiettivo che con le loro opere regalano al pubblico, come se fossero una sorta di angeli che donano al loro pubblico?”.

Mi verrebbe da dire che il comico è stato fornito dal Padreterno di una sensibilità bislacca, un po’ guardona, un po’ cinica e nei casi più fortunati molto, molto acuta. È una specie di sguardo laterale, ancorché privilegiato, che può fornire una visione particolare della realtà.  Insomma, una specie di libera uscita della logica, un momento di ricreazione della serietà, una gioiosa affermazione del paradosso.

La comicità è quasi impossibile infilzarla in un unico concetto, talmente sono variegati i suoi stili e le sue declinazioni, ma noi TRE (io, il meridionale e il vecchietto) siamo affezionati al suo aspetto giocoso, quella stessa ironia che invece di dire: “hai il naso grosso”, ti fa dire: “quando crescerà tutto il resto?”.

Certo, di fronte alle tragedie e alle tristezze le gambe del comico fanno “giacomo giacomo”, però la comicità non è mai arretrata nemmeno di fronte alla oscurità delle dittature più sanguinarie e alla apparente definitività della morte: basti pensare ai capolavori di Charlie Chaplin “il grande dittatore”, e “vogliamo vivere” di Ernst Lubitsch o a quell’esilarante racconto sulla morte di Woody Allen.

La comicità si occupa anche di cose tristi, di cose complicate, di cose apparentemente irrisolvibili, e il suo segreto è l’imprevedibilità, la discontinuità, la rottura degli schemi consueti. Però la gente pensa che i comici siano sempre disposti a far ridere. Se per strada vi capitasse di incontrare una coppia di cui il marito è un celebre comico, non fatevi tentare dall’esclamare una frase tipo: «Beata lei signora ad avere un marito che fa il comico, chissà quante risate le fa fare!». È molto probabile che la moglie vi risponda: «questo qua? ma se è un musone che faccio fatica a strappargli fuori una parola, sono io a doverlo far ridere, altroché!».

Però, scusate, fatemi difendere per un attimo la categoria: non è che un panettiere torna a casa alla sera e si mette a fare le michette o un gommista non è che si mette a cambiare le gomme della macchina dell’amico se per caso si incontrano per strada. E non ditemi che un alpinista dopo il lavoro, in casa sua, si mette a scalare la parete del tinello o a fare colazione imbragato sul lampadario.

Uno quando ha finito il suo lavoro lascia il camice e gli attrezzi da lavoro nel proprio armadietto, perché non si può essere urologi 24 su 24 o, meglio, non si può essere solo quella cosa lì nella vita. Perfino un comico si cambia d’abito quando torna a casa sua. In casa sua può permettersi perfino di essere triste, come tutti, come il pasticciere, il commercialista, l’odontoiatra, il blogger, il Papa, il tronista, il tassista, e lo psichiatra. Perché tutti abbiamo diritto alla nostra tristezza.

Esiste una differenza abissale tra il pensare che i comici siano perennemente di buon umore e la realizzazione di «Frankenstein Junior» o la celebre scena della lettera in «Totò, Peppino e la malafemmena».

Nella seconda ipotesi c’è il talento che proviene da Lassù, c’è la determinazione del lavoro, c’è amore per la forma. Sì, perché la differenza tra un comico e l’amico che ci tiene allegri sotto l’ombrellone è tutta lì: il comico è contento solo quando consegna al pubblico la sua fantasia, la sua creatività in forma di sketch, di film, o di battuta; è contento quando consegna un mondo che lui ha creato. E vi assicuro che i mondi si creano non solo con l’allegria, sono sempre necessari tanti altri ingredienti molto meno allegri.

(in SE VUOI 5/2018)