Costruttori di Speranza

di don LUIGI CIOTTI, fondatore del Gruppo Abele e di Libera

 

LA NOSTRA SOCIETÀ SCATENA LA PAURA … COME REAGIRE?

La paura è un sentimento legittimo: è normale sentirsi disorientati di fronte a ciò che non conosciamo, non capiamo, non abbiamo mai sperimentato. Accade alle singole persone, e anche alle società, ai gruppi, di temere l’incontro con la novità, la diversità, e quei cambiamenti che pure sono l’essenza di ogni percorso umano. In questo senso, la paura può essere paragonata al freno di un’automobile, o di una bicicletta se preferite: attivata al momento giusto, ci aiuta ad affrontare con cautela gli ostacoli e le “curve” della vita. Ma se si trasforma in condizione permanente, diventa essa stessa l’ostacolo che ci impedisce di andare avanti, di vivere l’esistenza con il necessario slancio, di sperimentare pienamente la nostra libertà. Quella libertà che è incompatibile con l’eccesso di prudenza, poiché ogni giorno ci chiede di fare delle scelte, di assumerci delle responsabilità, di contribuire a liberare chi ancora libero non è.

Come distinguere allora le paure “utili”, quelle che impongono un supplemento di riflessione nei passaggi cruciali della vita – e della nostra storia collettiva – da quelle “dannose“? Le prime sono paure “attive che risvegliano il desiderio d’interrogarsi,confrontarsi, conoscere. Le altre sono invece “passive: le subiamo come prodotto della nostra pigrizia, superficialità e ignoranza, del rifiuto di accettare il rischio dellincontro col mondo e con gli altri.

Il Vangelo ci mette in guardia contro questo tipo di paure, che rispecchiano ad esempio l’atteggiamento del servo stolto, quello che nella parabola dei talenti, anziché mettere in gioco le sue risorse, le nasconde sotto terra, rinunciando a farle fruttare.

Attenzione, perché è proprio su queste forme di paura e di chiusura che oggi speculano i “nemici’‘ del cambiamento e della giustizia sociale. Di esse si nutre la retorica della “sicurezza” sulla quale negli ultimi anni si è appiattito gran parte del discorso pubblico, secondo il quale le difficoltà non nascono “dentro” la nostra realtà, ma arrivano da “fuori”, sono sempre causate da un “altro”, meglio se “diverso”. Così si spiega la crescita del “penale” a scapito del “sociale” e il tentativo di ridurre problemi complessi come la povertà, la prostituzione, e certe manifestazioni di dissenso, a mere questioni di “ordine pubblico”. Per non parlare dell’immigrazione, elevata a “madre” di tutte le nostre angosce, nel nome della quale si giustificano leggi disumane – come il reato di clandestinità – che innescano un circolo vizioso: paure infondate, o ingiustamente amplificate, costringono a una paura vera, quotidiana, fonte di umiliazioni e ricatti, uomini e donne colpevoli soltanto di cercare dignità e futuro.

A questo porta la paura, se non sappiamo controllarla: a costruire muri, prigioni, risentimenti, capri espiatori. A confondere le diversità con l’avversità, scordando quel grande insegnamento che Benedetto XVI ha così espresso nell’enciclica Caritas in veritate: «L’unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l’uno verso l’altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità».

Anche l’attuale fragilità economica, italiana e internazionale, si presta ovviamente a diventare un’incubatrice di paure. Temiamo per il nostro posto di lavoro, per i nostri diritti, per il futuro dei giovani. Ma anziché cogliere l’occasione per mettere profondamente in discussione un sistema che ha alimentato la povertà di molti e gli assurdi privilegi di pochi, anziché rafforzare il contrasto agli interessi mafiosi, che nelle crepe di quel sistema si sono infiltrati con estrema facilità, troppe volte ci chiudiamo nella vana difesa dell’esistente, di quel “poco” che resta, che è pur sempre qualcosa. Cadiamo insomma nella trappola di credere che la “crisi” sia solo economica, e non prima ditutto crisi etica e politica, crisi di prospettive e di coraggio. Trasformare questa miopia in uno sguardo “profetico”, questa pericolosa rassegnazione in speranza, è un impegno che è affidato ad ognuno di noi.

Tutti siamo chiamati oggi più che mai a quel coraggio che vuol dire “avere cuore”, incontrare i bisogni degli altri e le nostre comuni paure, sapendovi riconoscere degli aspetti positivi. La paura infatti può diventare uno stimolo inaspettato ad uscire dalle “bolle” dell’abitudine e dell’indifferenza, può darci una scossa, obbligarci a porci domande “scomode”. Il problema è quando si cronicizza. Quando si trasforma nella malattia peggiore: la paura della paura”, quel sentimento che immobilizza e ci ruba la lucidità, e non è più un freno da attivare quando serve, ma un macigno che ci schiaccia a terra, impotenti. Scongiurare questo rischio è una grande sfida educativa e culturale che ci chiama profondamente in causa, anche come cristiani.

Ancora una volta, il Vangelo ci illumina: “Perché siete così paurosi?”, domanda Gesù a chi è paralizzato e incapace di reagire con fiducia alle difficoltà del suo tempo. E non a caso le prime parole del Risorto sono “Non abbiate paura” (Marco 16,6). Perché solo vincendo la paura – con intelligenza, con fiducia, con fede e un’autentica apertura all’altro – si diventa costruttori di speranza. Quella speranza che è vedere un futuro che non sia più luogo della paura, ma della possibilità, e mettersi insieme in cammino per raggiungerlo.

(da SE VUOI 5/2011)