La Città e la Parola. La voce profetica di Paolo Borsellino

di Vincenzo Ceruso

Fiammetta è la figlia più piccola di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso a Palermo da Cosa Nostra, in via D’Amelio, il 19 luglio 1992. Nei suoi racconti non vi è solo il dolore della figlia, ma trapela l’indignazione della cittadina responsabile di uno Stato democratico. Infatti, non sappiamo ancora la verità sulla strage di via D’Amelio, occultata dal più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Al di là delle verità processuali, proviamo a capire meglio chi fosse Paolo Borsellino, raccogliendo qualche tessera di un mosaico che attende di essere ricostruito integralmente.
“La città è il luogo della nostra battaglia”, diceva il sacerdote – poeta David Maria Turoldo. Ed è nell’orizzonte della città che si comprende la fede di Borsellino. Cresciuto nel centro storico di Palermo, nel popolare quartiere della Kalsa, il futuro giudice aveva compreso presto l’importanza di sottrarre i giovani all’influenza mafiosa. Forse per questo, egli accompagnò volentieri Fiammetta nella chiesa palermitana di San Francesco Saverio, all’Albergheria. Qui aveva preso piede l’esperienza di don Cosimo Scordato, sacerdote e teologo siciliano, che aveva creato il Centro Sociale San Saverio, dove veniva offerta un’alternativa ai ragazzi che rischiavano di finire nel giro della criminalità organizzata. Borsellino aveva piena consapevolezza di quanto fosse importante questa battaglia: “La lotta alla mafia […] non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte (perché prive o meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col «male»), a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, uomini diversi tra loro coltivavano la speranza di un riscatto per la loro terra. Paolo Borsellino, uomo di Stato proveniente da una destra legalitaria, era anche un credente che si nutriva della Parola di Dio. Rita Borsellino diceva di suo fratello: “Paolo amava il libro dei Salmi. Leggeva un Salmo la sera, alla fine della giornata, per trovare conforto e riposo, e uno la mattina, all’inizio della giornata, perché la giornata ne fosse illuminata”. Nello splendido discorso che Borsellino tenne nel chiostro della Biblioteca Comunale di Palermo, ad un mese dalla morte di Falcone, diceva di sé: “In questo momento … oltre che magistrato, io sono un testimone”. Ed è chiaro che lo diceva in senso tecnico, perché attendeva, invano, di essere convocato per riferire sulla strage di Capaci. Ma chi fu presente quella sera, non può non sentire un timbro in quelle parole, che rimanda ad un altro senso del termine. Il martire è il testimone per eccellenza, colui che sceglie di amare fino alla fine.
Ascoltiamo ancora le parole di Paolo in memoria di Falcone: “Sì, egli amava profondamente Palermo proprio perché non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto dare, per lui e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo ha avuto e ha il significato di dare a essa qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene”.

Don Cesare Rattoballi, parroco nella periferia di Palermo, conosceva bene Paolo Borsellino. Facevano parte della stessa comunità parrocchiale, Santa Luisa de Marillac. Ma il loro rapporto mutò dopo la strage di Capaci. Don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta uccisi con Falcone, la cui moglie, Rosaria, si era rivolta direttamente ai mafiosi durante i funerali, invitandoli alla conversione. Borsellino aveva apprezzato le parole della vedova e l’aveva incontrata, insieme al sacerdote. Si instaurò un rapporto di amicizia, in quegli ultimi giorni. Ascoltiamo don Cesare: “Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo»”.

Le parole dei testimoni sono un tesoro prezioso, che preparano ad una vita spesa per la giustizia.

(SE VUOI 5/2020)