Maria Vingiani
Un ponte per l’unità

(di BRUNETTO SALVARANI da una sua intervista inedita a Maria Vingiani, primavera 2007)

Un regista misterioso, ma dalla vista lunga, ha scelto per il suo dies natalis la data più giusta: il 17 gennaio scorso, tradizionale Giornata del dialogo con gli e- brei. Quella che proprio lei aveva fortemente voluto trent’anni fa, a un cuor solo con figure del calibro del vescovo di Livorno Alberto Ablondi, il rabbino capo di Roma Elio Toaff e Tullia Zevi, presidentessa dell’Unione delle comunità ebraiche. La morte di Maria Vingiani, evento tutt’altro che inatteso per una donna che stava veleggiando verso il secolo di età (era nata il 28 febbraio 1921), ha il sapore di un punto e a capo per l’intero mondo del dialogo, ecumenico e interreligioso, chiamato a caricarsi sulle spalle l’eredità esigente di una matriarca appassionata come nessun altro in quel campo. Un campo che prese ad arare quando non ne esistevano neppure i presupposti: educandosi a pensare ecumenicamente mentre persino la parola ecumenismo era aborrita nel linguaggio cattolico; studiando l’ecclesiologia luterana per la tesi; dedicandosi poi anima e corpo alla politica, fino a diventare, poco più che ragazza, assessore alle Belle Arti in una giuntala boratorio di una città unica, la Venezia del tempo del patriarca Roncalli. Che, eletto inaspettatamente vescovo di Roma, fu il suo sponsor nella scelta esistenziale di spostarsi nella capitale, lasciando carriera e affetti, in vista di quel Concilio di cui Maria divenne protagonista nascosta ma costante: favorendo il fatidico incontro tra Giovanni XXIII e lo storico ebreo francese Jules Isaac, autore di Gesù e Israele (1948), destinato ad avviare l’iter verso l’epocale dichiarazione Nostra aetate, ma anche dando vita a un’associazione – il Segretariato Attività Ecumeniche – che il Vaticano II lo prese per mano per decenni, fino a oggi, traducendolo in centinaia di iniziative nelle diocesi e nelle parrocchie. Chi aveva la fortuna di ascoltare il suo appassionato racconto di quella stagione pionieristica ed effervescente, restava di norma a bocca aperta per l’audacia creativa di quella signora minuta e battagliera che letteralmente inventò il movimento ecumenico nel nostro Paese, abbattendo barriere e sfidando inerzie e incrostazioni secolari. “Di fronte abbiamo ancora molta strada da percorrere! – disse qualche anno fa – La diversità è un dono di grazia e di vita, e non cancella i doni che il Signore offre a ciascuno. Semmai ci invita a metterli in comune. Ce la potremo fare, perché, in ogni caso, non siamo più come prima: il mondo è cambiato, la Chiesa è cambiata… e definitivamente!”. « Tra le chiese non c’era conflitto ma piuttosto indifferenza e reciproca ignoranza. Allora giovanissima, a Venezia vivevo un itinerario di fede nella mia parrocchia cattolica, ma m’incuriosivano le altre chiese che vedevo camminando per strada: quella valdese, luterana, metodista… Un giorno, avevo undici o dodici anni, decisi di entrare in una di queste in Campo Santi Apostoli. Mentre lo facevo mi sentii subito colpevole; qualcuno avrebbe potuto vedermi… Ma entrai lo stesso, e fui subito attratta dai libri poggiati sopra un tavolo. Mi avvicinai autogiustificandomi, dicendomi che in fin dei conti stavo semplicemente guardando dei libri. Volevo capire e per capire dovevo studiare. Crescendo e arrivando alla laurea, pur tra mille difficoltà anche familiari, decisi di approfondire proprio il tema delle relazioni tra le chiese, non trovando praticamente nulla: solo qualche studio apologetico di parte cattolica. La mia vocazione ecumenica nacque da lì, dal fatto che non potevo accettare di buon grado le barriere esistenti tra chiese unite dall’unico vangelo, dall’unico Cristo, dall’unica salvezza.
Quelle barriere per me erano una contraddizione inaccettabile! Impegnandomi in una tesi sui fondamenti della separazione tra i cristiani, volevo penetrare i segreti della vita e della spiritualità di una chiesa protestante: per far questo volli partecipare di persona a un culto evangelico, assistendo alla celebrazione della Santa Cena. L’ostacolo del rischio di una scomunica imponeva una via impegnativa: un colloquio e la richiesta di deroga addirittura al vescovo, il patriarca di Venezia, allora il cardinale Giovanni Piazza. Ascoltata la richiesta mi fece inginocchiare, e ponendomi le mani sulla testa, con un atteggiamento molto pastorale, mi disse: “Se ti vuoi perdere, perditi”. Non ho mai pensato con risentimento a quelle parole, dette in piena coscienza e con tenerezza. Ero consapevole che la mia intenzione gli procurava sofferenza. E così, una domenica mattina in cui si celebrava la Santa Cena, ho fatto la mia visita a una chiesa protestante, scegliendo quella valdese del sestiere Castello. Mi fermai sulla soglia, quasi attaccandomi alla porta per frenare il mio slancio a prendere parte a quel gesto eucaristico. Fu un’esperienza assai intensa. Anni dopo mi ritrovai per caso sulla tomba del patriarca Piazza e mi commosse la scritta incisa sulla pietra, Ut omnes unum sint, la citazione chiave e la parola d’ordine del movimento ecumenico». (SE VUOI 4/2020)