Sotto la stella della fragilità

di p. J.P. Hernandez, gesuita

Si dice spesso che la vocazione consista nel “seguire la propria stella”. Gli astri sono fin dai tempi arcaici un simbolo del desiderio profondo o dei sogni più alti. Infatti una delle etimologie possibili per “desiderio” è la radice “sidus -eris” (latino per “stella”). Ma la stella nell’Antichità classica è soprattutto la rappresentazione di se stesso, o meglio, la rappresentazione della propria brillantezza, della propria gloria. Gli antichi romani riportavano che, dopo la sua morte, Giulio Cesare era diventato una stella che continuava a brillare e a guidare Roma. La stella è per così dire “l’apoteosi di se stesso”, il segno del proprio carattere straordinario, divino. Non siamo molto lontani dalla simbologia hollywoodiana del “walk of fame”, dove un presidente come Donald Trump addirittura si reca sul posto per “riparare la sua stella”. Anche nella tradizione di Israele, il veggente pagano Balaam aveva visto una “stella spuntare da Giacobbe e uno scettro sorgere da Israele” (Nm 24,17). Si tratta anche qui di una immagine di potenza, anzi di violenza. Infatti il testo continua dicendo che questa stella (o scettro) “spacca le tempie di Moab e il cranio di tutti i figli di Seth”. È una potenza paradossale perché Balaam l’annuncia vedendo proprio la fragilità di Israele, vedendo le precarie tende di questa popolazione senza terra.

È su questa scia che capiamo meglio l’immagine dei tre “magi”, nel Vangelo secondo Matteo. Essi “hanno visto la Sua stella sorgere ad oriente”. Cioè hanno visto una forza, ed è questa forza che loro seguono. Si sono messi in cammino intuendo forse che c’era un re, una sorta di nuovo Giulio Cesare, un personaggio vincente, da cui guadagnare e con cui guadagnare. Un qualcuno per cui vale la pena lasciare la propria terra e mettersi in cammino. Ma arrivati a Gerusalemme, i tre magi si incontrano con un altro codice, che non è più il “sistema” degli astri, non è più il codice dei propri desideri o della ricerca della propria vittoria. È il codice delle Scritture di Israele. Ed è attraverso questo misterioso codice che i magi capiscono che devono andare verso “il più piccolo dei capoluoghi di Giuda”, Betlemme. E una volta andati, trovano questo re, questa potenza, questo nuovo Imperatore,… nella più povera delle stalle, nel luogo più dimenticato. E lì brilla di nuovo la stella. E lì sono presi “da una grande gioia”, come dice il Vangelo. Questo è la vocazione. La vocazione, l’incontro con Dio, è l’inconfondibile gioia di chi scopre che ha sbagliato tutto cercando la potenza umana. Meglio: di chi scopre che il Signore ha trasformato la sua ricerca di potenza in intimo incontro con il meno potente, con il fragile neonato di Betlemme. Il Signore ci prende “alla larga” e non si schifa del nostro cuore egocentrico che cerca solo la propria vittoria. Quante volte camminiamo nei nostri percorsi spirituali, nei nostri ambiti di Chiesa, nei nostri volontariati, cercando solo la nostra vittoria, credendoci delle “star”. Ed è solo attraverso un confronto serio con le Scritture, come i magi a Gerusalemme, che il nostro cuore è pian piano trasformato. Esso diventa capace di andare alla massima fragilità, la fragilità altrui che è poi la propria fragilità. Questo è il primo passo di ogni cammino vocazionale. Ogni scelta di vita è il modo in cui il Signore trasfigura lentamente le nostre fragilità in buona notizia, in pienezza di vita, in un ritorno a casa “per un’altra strada”. Perciò la vocazione autentica non è una risposta ai propri desideri. Ma la vocazione autentica nasce quando una persona riconosce in una fragilità esterna la propria fragilità. Nella mangiatoia la propria vulnerabilità. Nella croce il proprio essere trafitto. In ogni croce. In ogni mangiatoia. La vocazione non è un esercizio solipsistico di auto-realizzazione. È perché confondiamo “vocazione” con realizzazione di sé, peggio, con “benessere” o “equilibrio umano”, che ci troviamo con dei religiosi che non brillano più, con delle comunità che sono dei mucchi di solitudini, con delle coppie di sposi che non reggono la fragilità dell’altro e non sanno più “provare una grande gioia” perché non entrano più nelle stalle l’uno dell’altro. La vocazione è la consegna radicale al Signore del proprio fallimento, del proprio peccato, del proprio inferno. Non è un caso se Gesù dice a Pietro che vuole costruire la Sua Chiesa proprio sulla pietra su cui gli inferi non prevarranno. Infatti, secondo la concezione ebraica, il Tempio di Gerusalemme era costruito sulla bocca degli inferi. Le grandi cattedrali, da Notre Dame a Santiago alla Sagrada Familia a Canterbury, hanno delle rappresentazioni che mostrano come l’edificio “schiaccia” quel male infernale sul quale è costruito. La cattedrale cristiana è la più bella immagine del “lavoro”, della “rielaborazione”, che Dio fa con il nostro peccato. Lo trasforma in spazio di salvezza per tanti, in inno alla fedeltà di Dio, in Bellezza. Questa è la seconda parte di ogni vocazione. Che cosa fa Dio con il nostro peccato? La Chiesa! Ogni vocazione, allora, ha senso solo in quanto “edifica la Chiesa”. Ogni vocazione è un modo di costruire la Chiesa, cioè di celebrare la vittoria di Cristo sugli inferi. Ogni vocazione è una festosa liturgia di vittoria. Perciò non c’è vocazione autentica se non come risposta a un bisogno concreto della Chiesa. La domanda vocazionale che aiuta di più non è tanto “dove ti portano i tuoi desideri?”, ma “dov’è la bocca dell’inferno?” e, forse, ancora meglio: “quale inferno vedi nella Chiesa che ti fa reagire visceralmente?”. Nell’Antico Testamento Dio suscita i profeti non per “auto-realizzarli”, ma perché c’è nel Popolo una mancanza, un’impurità, un forte tradimento. Mancanza e impurità di cui il profeta stesso è attraversato in prima persona. “Ahimé sono un uomo dalle labbra impure” (Is 6,5) grida Isaia, che non si sente all’altezza di dover purificare il popolo. È proprio l’impurità di Isaia che Dio trasfigurerà in Parola per purificare tutto Israele. È importante allora riscoprire il “polo esterno” della chiamata. Quali sono i bisogni della Chiesa, le sue ferite, le sue mancanze? Quali sono gli scandali che più ti colpiscono nella Chiesa? Che più ti rattristano e ti turbano? Lì il Signore ti sta già chiamando. Lì rivedrai la stella. E proverai una gioia grande!

(in SE VUOI 6/2018)