Un numero di telefono…
                                                                                                      sulla parete della prigione

 

Noto come “l’angelo dei profughi”, Abba Mussie Zerai
ha un passato da profugo: 42 anni, nato in Eritrea, ad Asmara,
nel 1992 è fuggito dalla dittatura opprimente della sua Eritrea
– in quel momento storico sotto l’occupazione etiope –
per raggiungere Roma, dove un prete britannico lo ha aiutato e accolto.
Ora, lui stesso, aiuta e accoglie i profughi che si rivolgono a lui…
Ecco l’intervista “via cellulare”
(suo compagno inseparabile di missione!)
che ha rilasciato a
SE VUOI.


– Migrante e sacerdote per i migranti: la sua è proprio una chiamata particolare, non trova?
So cosa vuol dire essere migrante… infatti, io stesso sono arrivato in Italia come migrante nel 1992; entrare in empatia con altri migranti mi riesce abbastanza facile. Quando ho deciso, prima che entrassi in seminario, c’è stato un incontro che mi ha segnato: gestivo allora un centro di ascolto a Roma, e una ragazza etiope mi disse: “Tu qui ci dedichi il tuo tempo, ci aiuti in tante cose materiali, ma noi abbiamo bisogno anche di chi ci ascolta, di chi ci aiuta a livello spirituale”. Ecco, questo è stato il campanello che ha risvegliato in me la vocazione, perché già da quando avevo 14 anni volevo entrare in seminario, ma allora mio padre non era d’accordo, per cui questo desiderio è stato messo da parte; però dopo l’incontro con questa donna, mi sono chiesto: “Perché non dedicare tutta la mia vita a Dio nel servizio a questi fratelli?” e da lì è nata anche l’idea di questa specifica vocazione: essere sacerdote per i migranti.

– Chi si rivolge a lei?
Ricevo tante richieste di aiuto, anche dal mare, da persone disperate che stanno rischiando la vita, anche donne incinte, o che hanno partorito sui barconi. 

– È vero che i migranti nel loro viaggio vengono sequestrati e subiscono atti di violenza?
Sì è vero! Ho ricevuto tante chiamate dai centri di detenzione, dove spesso sia donne che minori, ma anche maschi, venivano maltrattati, abusati, violentati. Questo succedeva in Libia, in Egitto e in tante parti del mondo. Persone che non han- no nulla, sequestrate, ridotte in stato di schiavitù, vendute come schiavi nel Sinai, fino al pagamento di un riscatto, alcune diventate vittime del traffico di organi… Chiedono che gli venga restituita la dignità, e garantiti i diritti fondamentali.
[…] Le stesse persone poi ti insegnano anche che la speranza è l’ultima a morire. 

– Cosa fa quando viene contattato?
Quello che posso fare è cercare organizzazioni internazionali, che possano andare a visitare i migranti nei centri di detenzione, a portare il minimo conforto e a trattare per la loro liberazione. Le storie di questo tipo sono tante e non tutte finiscono bene; per fortuna, tanti altri sono stati già salvati nel Mediterraneo. Almeno 150 mila persone negli ultimi 6 anni ho messo in contatto con le Guardie Costiere italiana e maltese e poi tratte in salvo.

– Ma… come fanno i migranti a mettersi in contato con lei?
Nel 2003 un giornalista italiano, Gabriele Del Grande (ndr. nell’aprile scorso è stato preso dalla polizia turca e rilasciato dopo qualche giorno) diede il mio numero a un gruppo di eritrei-etiopi (di cui voleva raccontare le storie), trattenuti nel centro di detenzione a Misrata (Misurata – Libia). Io dovevo fare solo da traduttore… Da lì è nato tutto! I detenuti mi raccontavano dei maltrattamenti, delle privazioni di cibo, di acqua, delle condizioni veramente degradanti che vivevano anche a livello igienico – sanitario. Il mondo doveva sapere! Ho cominciato a denunciare pubblicamente su tutti i giornali, perché questi centri erano anche finanziati dai fondi europei. Il passaparola ha fatto il resto…
Queste stesse persone hanno lasciato scritto il mio nome e numero di telefono sul muro del centro di detenzione, così chiunque passava di là sapeva a chi rivolgersi.

– Quali sono le conseguenze e i rischi? Subisce ritorsioni, minacce?
Gesù ha detto: “Chi mi vuole seguire, porti anche la sua croce”…, dunque, insieme al seguire Cristo, c’è anche una croce da portare!
In questo caso, sei esposto a ogni tipo di accuse e di ritorsioni, insulti, calunnie, diffamazioni; bisogna essere pronti anche a pagare questo prezzo.
Un cristiano, e a maggior ragione un sacerdote, che vuole essere accanto alle persone più vulnerabili, in situazioni di sofferenza, di fuga, di persecuzione…, deve sporcarsi le mani ed essere pronto a portare la propria croce.
…E quindi devi accettare anche tutto questo.

– Accoglienza e integrazione: una lettura positiva?
Quello che oggi stiamo vivendo, i fili spinati e i muri, sono frutto di paura e anche di una certa impreparazione.
Specialmente un cattolico, per natura, deve essere aperto all’universalità e all’accoglienza.
Non bisogna aver paura dell’altro, perché mi arricchisce e mi completa; non viene a togliermi niente. La paura prende piede quando sono incerto sulla mia identità, sulla mia fede.
Invece, se io prima di tutto sono sicuro e pronto a confrontarmi con l’altro, ad arricchirlo e a farmi arricchire dalla sua esperienza e  cultura, l’altro mi rafforza. L’accoglienza, prima ancora che fisica, è spirituale: avviene prima di tutto nel cervello e nel cuore di ciascuno. E se io l’ho accettato, se gli ho fatto spazio nel mio cervello e nel mio cuore, non faccio fatica poi a fargli spazio accanto a me, anche fisicamente.
L’integrazione è il passo successivo, essa non è a senso unico; vuol dire che io integro qualcosa di suo e lui integra qualcosa di mio.
La storia è maestra: è grazie all’immigrazione che sono arrivate diverse culture, visioni, letterature, filosofie.
L’immigrazione può generare anche nuove conoscenze sul piano umano, relazionale e affettivo. L’importante è gestire questo fenomeno e governarlo. L’immigrazione non è una cosa nuova nel- la storia umana e nessuno deve averne paura.
Bisogna superare la paura dell’ignoto e creare situazioni di incontro, di dialogo, di scambio di idee, di cibo, di musica, di teatro…
In questo modo sarà possibile costruire qualcosa insieme!

– Cosa le sta più a cuore e vuole dire ai giovani?
Il messaggio che voglio gridare ai giovani è di diventare lì dove vivono, procuratori e promotori di giustizia. Cioè di essere giusti nelle relazioni personali, in famiglia, in parrocchia, nella scuola, nel lavoro…
Tutto questo esodo di profughi è frutto della mancanza di giustizia.
Se ciascuno di noi, nel suo piccolo, nel luogo dove vive, diventa persona giusta e promuove la giustizia, ognuno con la sua goccia creerà un oceano di giustizia.
E poi, vorrei dire a ciascuno di non essere prigioniero della legge, perché noi cristiani non siamo chiamati a essere custodi della legge, ma siamo chiamati a mettere in crisi la legge, confrontandola con la giustizia. 
E la misura della giustizia è il comandamento che ci ha dato Gesù: “Ama il tuo prossimo come te stesso”!

(di Laura Cenci, rivista SE VUOI)