Studiare è amare ovvero fare esperienza di libertà

di Daniele Celli, pedagogista

 

Il verbo “studére” in latino tra i suoi significati ne ha uno cui gli studenti difficilmente sarebbero di primo acchito inclini a pensare, eppure è l’unico che rende adeguatamente ragionevole l’impegno, spesso faticoso, dello studio: infatti “studére” significa “amare appassionatamente”. E in effetti quando si fa loro notare che se un lui è colpito da una lei, eccome se se la studia! – e viceversa: allora probabilmente cominciano a intuire che, sì, lo studio in qualche modo c’entra con l’amore. Dove sta allora il problema? Da cosa è data la difficoltà circa l’autentica comprensione del senso e del valore dello studio? Il problema risiede nel rapporto tra testo e contesto, ovvero nel rapporto tra lo studio e il contesto nel quale lo si colloca. Se una ragazza, ad esempio, è appassionata di danza, studierà i passi e si applicherà a impararli, fino a farli esattamente suoi sotto la guida anche severa di un’insegnante, senza sostanziali obiezioni, pur magari cedendo talvolta a qualche momento di sconforto per la fatica implicata negli esercizi che dovrà ripetere. Se l’oggetto di studio con- tiene qualche elemento di interesse, il soggetto sarà motivato a conoscerlo e a imparare a padroneggiarlo, seguendo con rigore il metodo richiesto specificamente dall’oggetto stesso. In modo analogo, gli esempi si possono moltiplicare per tutti gli àmbiti nei quali ci sentiamo davvero protagonisti in quanto agiamo consapevoli di perseguire uno scopo che riconosciamo nostro. Se parliamo invece di studio scolastico, il più delle volte può accadere che non ne siano chiare le ragioni e i fini e dunque lo si subisce come qualcosa di forzato. Cosa deve succedere perché uno studente possa sentire come “suo” lo studio che gli viene proposto? Innanzitutto la questione riguarda il docente: la prima cosa che l’allievo apprende da lui non è il contenuto delle sue parole bensì il rapporto che il docente intrattiene con quel che dice, se cioè testimonia – magari anche solo col tono della voce – che quel che dice lo riguarda, lo appassiona, lo coinvolge. Il docente, insomma, è tale perché è e rimane sempre e innanzitutto un discente, uno cioè che continua a desiderare di imparare e che perciò vive il rapporto con la realtà come una continua provocazione alla sua libertà ovvero alla sua ragione, che è sete di conoscenza, e alla sua volontà, che è energia di adesione. E la realtà, per il docente, è costituita sia da quel pezzo di mondo per la cui esplorazione la sua disciplina costituisce come una chiave di accesso privilegiata (ancorché non esclusiva), sia dal volto di quegli allievi che si fidano di lui (ovvero si affidano a lui) per essere guidati e accompagnati (mai sostituiti) in una analoga avventura della conoscenza. Che è conoscenza degli oggetti fuori di sé e quindi, in forza delle sollecitazioni e delle domande che il rapporto con essi stimola, è conoscenza sempre più approfondita di sé e quindi è maturazione progressiva della propria personalità, attraverso continui tentativi, approssimazioni ed errori. Il fondamentale fattore dell’apprendimento, perciò, è la qualità del rapporto educativo, che è rapporto tra due soggetti liberi: la libertà è in effetti la condizione del rapporto educativo (gli animali li si addestra, non li si educa) e nel contempo ne è lo scopo. Fine dell’educazione è infatti aiutare un altro a diventare sempre più se stesso, ovvero un uomo o una donna sempre più capaci di correre il rischio di usare la propria libertà. E il contenuto dell’educazione è aiutare l’altro a entrare nella realtà, secondo la totalità dei fattori che la costituiscono, ivi compresa la dimensione della trascendenza. E in terzo luogo il metodo dell’educazione è la comunicazione di sé, ovvero – come si è detto – la testimonianza di un certo modo di stare nel reale, cioè di vivere, stimolando il confronto con l’allievo e la libera verifica da parte sua della bontà di quanto gli si propone. Così colui che apprende cresce come persona responsabile, in quanto risponde a qualcuno che lo chiama e lo invita a diventare se stesso, in un rapporto fraterno e collaborativo con chi gli sta intorno. Perciò uno impara a studiare perché è aiutato ad imparare ad amare sé, a volersi bene, cioè a cercare un bene adeguato alla sua dignità di persona, e dunque a crescere in umanità cioè in libertà – perché non si dà umanità senza libertà. Così è anche possibile accettare il sacrificio che l’impegno dello studio comporta: nel senso che si sta compiendo qualcosa di sacro, non si sta appena accettando una fatica. Vale la pena ricordare, come “nota bene” conclusivo, che Manzoni – alla fine del XXXI capi- tolo de I promessi sposi – sottolinea come il metodo dello studio, ossia il metodo della conoscenza, richiede cinque passi:
– osservare
– ascoltare
– paragonare
– pensare
– parlare
Saltare subito all’ultimo passo ci porta a sproloquiare, mentre per parlare a ragion veduta oc- corre la pazienza di compiere l’intero percorso, senza cedere alla scorciatoia tentatrice e violenta – ma purtroppo molto diffusa – del pregiudizio. Occorre partire da un incontro.

(da SE VUOI 3/2020)