Abituarsi a Sognare…
È noto il suo impegno per la pace. Cosa ha motivato questa scelta?
Il mio impegno nasce dalla convinzione che il dono fondamentale che Gesù è venuto a portarci è proprio la pace. Per cui noi credenti dovremmo attestarci con più attenzione su questo tema, tutt’altro che secondario nella vita cristiana. Pace, intesa come rifiuto radicale della violenza, come frutto della giustizia, come valore supremo della vita, come convivialità delle differenze, come superamento delle barriere di razza o di religione… e non come tacitazione dei canoni o come tregua delle armi, o come resa di fronte al più forte.
Se il credente deve cercare il volto dell’altro, anzi, deve contemplarlo o accarezzarlo, come dice Lévinas, non è possibile che coltivi pensieri di odio o di rifiuto o di indifferenza nei confronti dell’altro. È qui che si gioca il nostro cristianesimo. Ed è da queste paradossali convinzioni, vissute con coerenza, che partono quei segnali di credibilità nei confronti di una Chiesa, che voglia vivere il Vangelo con lealtà e fino in fondo.
Ci può parlare della missione di pace a Sarajevo?
Con altri 500 anch’io sono stato a Sarajevo, e sono tornato da lì con delle cicatrici profonde nell’anima, con delle stimmate che chissà per quanto tempo porterò dentro, sicuramente finché camperò.
Perché siamo andati lì? Non per risolvere il problema della guerra. Siamo andati soprattutto per testimoniare a quella gente la nostra solidarietà, per dire che l’Europa non si è dimenticata di loro, per dire che c’è nel mondo gente che ama la pace e che ci sono oggi alternative nuove alla difesa armata, alla guerra. Non sono più le armi l’unico strumento per risolvere i conflitti internazionali e i conflitti tra i popoli. Le armi ormai, lo dico con speranza, hanno il tempo contato, non potranno reggere a lungo. Quando lo sforzo di coloro che s’impegnano per la pace avrà smascherato fino in fondo la gazzarra dei mercanti di armi, allora senz’altro sarà sbrecciata questa catena che collega il business degli affari con la guerra. E proprio noi italiani, la stragrande maggioranza dei 500 che sono andati a Sarajevo, abbiamo trovato lungo le strade sterrate, disseminate per terra, centinaia di mine italiane e questo nonostante gli embarghi.
Come è stato l’incontro con la popolazione jugoslava e quale segno di pace ha potuto scorgere tra quello che vivono la guerra?
La gente povera, la quasi totalità, ci veniva incontro con gioia, con speranza. C’era chi ci offriva da bere o da mangiare quel poco che aveva. Mi ricordo che una signora serba, accortasi in una delle lunghe attese che i 10 autisti dei pullman (tutti croati) erano affamati e intirizziti dal freddo, li ha invitati a casa sua e ha offerto loro il pranzo. Ricordo ancora che un signore ortodosso serbo mi è venuto incontro e, dopo aver visto la mia croce, l’ha baciata e mi ha chiesto di andare in casa sua dove stavano facendo un banchetto funebre per suo padre morto sei mesi prima; quell’uomo mi ha detto: «Io sono serbo, mia moglie è croata, queste mie cognate sono tutte musulmane eppure ci vogliamo bene. Perché la guerra?».
E ancora come dimenticare l’accoglienza che abbiamo avuto a Sarajevo: la gente ci abbracciava da tutte le parti, i ragazzi battevano le mani, le donne dalla finestre sventrate ci mandavano baci da lontano, ci stringevano le mani. Una cosa bellissima. Ciò dimostra che il popolo la guerra non la vuole. La vogliono solo i signori della guerra, i capi.
Eppure le violenze razziali non diminuiscono, la frattura tra ricchi e poveri cresce, i focolai di guerra si moltiplicano e il commercio delle armi non viene meno. Sembra che gli scettici, in fin dei conti, non abbiano torto.
È vero. C’è in giro molto scetticismo, anche tra i credenti, circa l’affermarsi definitivo della pace. Molti dicono: «Ma non vi accorgete? È sempre stato così. La guerra c’è stata sempre. La snidi da un posto e te la ritrovi in un altro. La spegni qui, e si rinfocola là. Abbandona le armi nucleari e riprende le armi strategiche convenzionali. Insomma, utilizzate diversamente la vostre risorse, perché combattere contro la guerra è tempo sprecato». È proprio contro questo scetticismo che gli operatori di pace devono impegnarsi. Dobbiamo ripetere a chiare lettere, senza stancarci, quel che più volte Giovanni Paolo II ci ha ripetuto: LA GUERRA E LA NON VIOLENZA NON RISOLVERANNO MAI I CONFLITTI TRA I POPOLI. La guerra è un’avventura senza ritorno. Dobbiamo essere certi, insomma, che la guerra ha le ore contate, non può durare a lungo, perché dal sottosuolo dell’umanità si vanno sprigionando incontenibili forze di pace. Non sono parole vuote! Sono le parole che oggi i profeti devono coraggiosamente pronunciare, con la convinzione di chi annuncia l’irrompere dell’aurora.
E in quest’ottica, tornando all’esperienza vissuta a Sarajevo a cosa pensa sia servito il gesto folle dei 500?
Abbiamo voluto dimostrare al mondo, all’Europa, all’Italia che ci sono segni alternativi alla violenza, si può trattare, si può entrare dove avvengono le guerre anche disarmati. Noi non abbiamo portato nulla né doni né armi. E chi ci voleva bloccare non era la gente che subisce la guerra ma i potenti che la manovrano, quelli che vogliono far credere che la guerra è inevitabile. Certo il nostro è stato davvero un gesto folle. Come è folle la pace, del resto. Al di fuori, cioè, del buon senso. Anche l’amore è aldilà del buon senso, della prudenza, dei reticoli delle nostre saggezze carnali.
Comunque, al di là di questa lucida follia (per i rischi e i pericoli che comportava), siamo felici di aver dato con questa spedizione dei segnali profetici all’Italia e all’Europa. La trattativa è possibile. La guerra è ormai incapace di risolvere i conflitti. Il bisogno di pace sta diventando endemico; la gente non vuol sentirne parlare di violenza armata. Ci è parso poi di aver fatto le prove generali di quelli che saranno eserciti di domani. Pensate al tempo in cui l’ONU si attrezzerà di un esercito di 300-400 mila obiettori di coscienza, esperti di strategie non violente, tecnici della difesa popolare nonviolenta…
Si risolveranno così i conflitti: con strategie preventive e con interventi riparatori nonviolenti! Questo è il futuro che ci aspetta. Questa è la profezia nuova che dobbiamo annunciare.
Parlando di futuro, si riferisce ai giovani?
La pace è impegno di tutti. Non ha età. Ma dico soprattutto ai giovani: bisogna abituarsi di più a sognare, a sognare ad occhi aperti: i sogni diurni si realizzano sempre. Siamo troppo chiusi nelle nostre prudenze della carne, non dello Spirito, per cui sembra che siamo dei notai dello status quo, e non i profeti dell’aurora che irrompe, del futuro nuovo, dei cieli nuovi, delle terre nuove. Vorrei esortare i giovani delle nostre città, che purtroppo sono un po’ pigri: dobbiamo svegliarci su questi problemi. Si può, insieme si può. Non è possibile che avvenga questa carneficina in tante parti della terra (Somalia, Mozambico, ex Jugoslavia). Gli uomini senza dubbio ritorneranno a pensieri forti, a pensieri generosi, a pensieri di pace. E io mi auguro che i giovani di oggi, tutti, possano fare parte di questa turba di gente che muove a piedi scalzi verso i traguardi della pace. Beati i piedi di coloro che annunciano la pace, beati i piedi di coloro che annunciano la giustizia.
Come comunità, come Chiesa, cosa possiamo fare per dare credibilità ai nostri desideri di pace alle nostre preghiere?
A dire il vero, dovremmo essere più audaci come Chiesa. Il Signore ci ha messo sulla bocca parole roventi: ma noi spesso le annacquiamo col nostro buon senso. Ci ha costituiti sentinelle del mattino, annunciatori, cioè, dei cieli nuovi e delle terre nuove che irrompono, e invece annunciamo cose scontate, che non danno brividi, che non provocano rinnovamento. Spesso ci adattiamo alla corrente… del Golfo. È necessario che ci riprendiamo, come credenti, il nostro ruolo di ministri della speranza. E che si parli anche con la forza provocatoria del Vangelo. A proposito di povertà, per esempio. Su questo tema non abbiamo il coraggio di “fare scrutinio”. Straricchi o miserabili, non facciamo più problema su questo. I richiami del Vangelo, in proposito, inascoltati. Si è creata ormai, a riguardo, una “buona coscienza” che ci lascia tranquilli e che non vogliamo turbare.
(Ignazio Pansini – Per la rivista SE VUOI 2/1993)