Eva Maria Buch
RESISTERE AL NAZISMO CON LA FORZA DELLE BEATITUDINI
5 agosto 1943. Carcere di Berlino Plötzensee. Eva Maria Buch sorride guardando il cielo dalle sbarre della cella. Forse sarà il suo ultimo sguardo verso l’infinito. Fra poco vi si immergerà e vedrà finalmente la luce, quella scintilla di amore che ha sospirato per tutta la vita leggendo il Vangelo: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i poveri, gli umili, i giusti, i puri. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi. Beati…» (Mt 5,3-12). La sveglia è brutale: «Si prepari, signorina, perché nel pomeriggio verrà eseguita la sentenza di condanna a morte con la ghigliottina».
Eva avverte un sussulto interiore. Non di paura ma di gioia. La notte ha avuto pure un sogno. Il cielo era scuro, c’era pioggia, vento, freddo. Improvvisamente è spuntato il sole e l’ha irradiata con un manto di calore.
Chiede subito carta e penna per scrivere la sua ultima lettera ai genitori. Annota: «Miei carissimi due, amati genitori. Sono stata molto felice della vostra lettera, che ho ricevuto ieri. Ora dobbiamo essere coraggiosi. Dobbiamo separarci… Le cose come sono andate negli ultimi mesi sono arrivate ad una conclusione. Ora tutto è pace e gioia… Perdonatemi mamma mia, papà mio. Tante cose rimarranno per sempre inespresse, ma sono profondamente in debito verso di voi e avrei voluto fare ammenda. Ma noi siamo fatti l’uno per l’altro insieme, e io resterò per sempre in mezzo a voi… Siate gioiosi fino all’ultimo respiro. La vostra piccola Eva».
Aveva appena compiuto 22 anni, la piccola Eva. La stessa età di Sophie Scholl, la ragazza simbolo della resistenza degli studenti della Weisse Rose (Rosa Bianca) di Monaco, anche lei ghigliottinata qualche mese prima di Eva, il 22 febbraio del 1943. Sophie amava abbracciare gli alberi e mettere i piedi nudi nei torrenti per sentire pulsare la vita. Ascoltava musica, ballava: «La musica ammorbidisce il cuore, mette in ordine la confusione… Sto ascoltando il “Quintetto della trota” di Schubert… Vorrei essere anch’io una trota quando ascolto l’andantino. Che musica meravigliosa! Si distinguono i profumi e si odora l’aria stessa e si percepisce la gioia degli uccelli e delle altre creature» – aveva scritto nei suoi diari.
Anche Eva amava suonare, leggere, cantare. Era combattuta. Non sapeva se dedicarsi alla musica, arrampicandosi su quelle note che aveva imparato a inseguire sugli spartiti dei grandi classici durante le lezioni al collegio delle suore Orsoline del quartiere di Kreutzberg a Berlino, oppure intraprendere la carriera accademica come interprete e docente di linguistica alla Facoltà per stranieri. Alla fine trovò un impiego in una delle più note librerie della capitale del Reich, nella centralissima Friedrichstrasse. Aveva appena diciotto anni. Infuriava la guerra: terribile, devastante, con milioni di morti. Da dieci anni Hitler teneva in pugno il Paese. La violenza dilagava ovunque. La censura non permetteva nemmeno alle librerie di poter esporre la cultura vera, quella che veniva al di fuori della zona di influenza del regime nazionalsocialista. Tutti ricordano bene il grande falò che i nazisti accesero il 10 maggio del 1933 nella Bebelplatz di Berlino, proprio di fronte alla Humboldt Universität, per bruciare i libri degli autori non graditi: Thomas Mann, Ernst Hemingway, Erich Kästner, Bertolt Brecht, Stefan Zweig, Kurt Tucholsky, Max Brod, Jack London. C’erano quasi tutti i grandi della letteratura tedesca e mondiale… Vennero arse anche copie della Bibbia e altre opere di letteratura religiosa.
Fu nella libreria che Eva conobbe il quarantenne Wilhelm Guddorf. L’uomo militava in una organizzazione clandestina, denominata poi dai nazisti Rote Kapelle (Orchestra Rossa). Era comunista e aveva lavorato, fino al 1932, nel giornale “Rote Fahne”, fondato da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ma nell’organizzazione di RESISTENZA che coinvolgeva quasi trecento persone nella sola Berlino, c’erano donne e uomini (tanti giovanissimi) di varia estrazione. C’erano cattolici come lei, come l’abile dattilografa Maria Terwiel che verrà giustiziata insieme a Eva quel maledetto 5 agosto del 1943, c’erano cristiani della Chiesa confessante che avevano come punto di riferimento il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (anche lui impiccato a Flossenbürg nell’aprile del 1945), c’era qualche ortodosso e poi militanti della sinistra e anarchici. La Rote Kapelle era stata fondata da Harro Schulze, un ufficiale dell’esercito convertitosi alla lotta partigiana e dal cugino di Bonhoeffer, Arvid Harnack, intellettuale raffinato con alle spalle studi di sociologia in America.
Eva aiutava Guddorf nella divulgazione di volantini, teneva i collegamenti con i membri dell’organizzazione, traduceva documenti dall’inglese in cui si invitavano gli operai a sabotare la produzione dell’industria bellica, cercava di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’assurdità di foraggiare quella guerra fallimentare. Diffondeva le omelie del vescovo di Münster August von Galen, che si era scagliato in cattedrale contro la legge sull’eutanasia, un vero omicidio di stato con l’intento di eliminare i soggetti “non produttivi” della società. Ma lo spionaggio tedesco riuscì a intercettare le attività di Eva e degli altri militanti. E la Rote Kapelle venne recisa. L’11 ottobre del 1942 Eva venne arrestata e tenuta in isolamento in Alexanderplatz fino a febbraio 1943 quando ci fu un processo farsa con la condannata a morte (Eva venne derisa, umiliata, ridicolizzata dal giudice che la apostrofò come una “infame”).
Il cappellano del carcere, Peter Buchholz la incontrò la sera prima della condanna. Nel 1952, in occasione di una commemorazione delle vittime delle carceri di Berlino, il sacerdote la ricordò così: «Eva aveva la luce negli occhi. Affrontò la morte come una cristiana che sa che non è la fine ma l’inizio. Mi è sembrata una santa dei tempi passati».
(a cura di Francesco Comina, rivista SE VUOI 4/2024)