Chi è don Pino Puglisi

Don Giuseppe Puglisi è stato il primo prete ucciso dalla mafia a causa della sua fede, il 15 settembre del 1993, giorno del suo compleanno.
Era parroco di Brancaccio, un quartiere alla periferia est di Palermo. Vi era nato e conosceva il dominio  oppressivo di Cosa nostra, la sua influenza su tanti aspetti che riguardano la vita quotidiana, dalla casa al lavoro. Sapeva che limitarsi alle denunce antimafia gli avrebbe procurato qualche titolo sul giornale, ma non avrebbero cambiato nulla. Scelse una via rivoluzionaria: voleva strappare i figli dei mafiosi al destino dei loro padri, affinché non diventassero “uomini d’onore”, ma uomini, educati alla legalità e alla convivenza civile. Un filosofo, Malraux, ha detto: “Attendo il profeta che oserà gridare: non c’è il nulla”.  È quello che Puglisi ha gridato a intere generazioni di giovani. Il materialismo conduce al nulla e l’esistenza è degna di essere vissuta. Scriveva: “L’uomo è diventato ad una sola dimensione, questo è potremmo dire il male nel quale vive l’uomo, per cui chiuso in questa scatola che è la materia stessa non riesce a trovare un senso alla sua vita stessa ed allora ha proprio il senso del vuoto”. 

In un mondo in cui tutto può essere comprato e ogni diritto diventa elargizione, egli perseguiva il valore della gratuità contro la dittatura materialistica della mafia. Per Puglisi lo spirito è il vero protagonista della storia: “L’uomo è completato, perfezionato nella sua persona dal fine soprannaturale a cui tende e chi lo spinge a questo fine dandogli gli aiuti necessari è lo spirito, l’orua. Questo spirito che indica proprio la partecipazione del Divino che c’è nell’uomo, come una scintilla che c’è; questa fiamma divina che viene comunicata all’uomo stesso, e indica questa tensione che c’è nell’uomo verso il soprannaturale, verso Dio. Questa tensione che c’è nell’uomo di trascendersi verso il trascendente, verso cioè qualche cosa che lo supera e a cui non basta quello che è semplicemente natura”. Questo cristiano del XX secolo, dotato di così grande cultura, non era un intellettuale solitario, ma un prete di frontiera, un parroco che amava la sua missione. Ed era un uomo pieno di amici. Nelle sue parole l’amicizia assumeva quasi il valore di un sacramento:
“Gli amici sono fatti per essere un Noi, ma nello stesso tempo sono chiamati a vivere, in modo più vero, ciascuno la propria identità. L’amicizia fa toccare in qualche modo il nucleo centrale di se stessi, aiuta a dare risposta alle eterne domande”.

La sua battaglia consisteva in una rivolta spirituale e non violenta, condotta con le armi dei miti: la fede e la cultura. Andrea Riccardi lo ha definito un “prete woytjliano”, cioè un prete formatosi al magistero di Giovanni Paolo II, nella sua idea di una Chiesa come spazio di libertà. Dal 1983 al 1990 don Pino portò centinaia di giovani in campi scuola in giro per la Sicilia. Erano luoghi in cui la fede non veniva presentata come una reliquia, ma diventava una ricerca da fare con gli altri, condividendo gioie e speranze. Puglisi sapeva scrutare dentro il cuore dei giovani: “Sappiamo che dobbiamo impegnarci, però sappiamo anche che siamo fragili, e abbiamo fatto tante altre volte propositi, forse anche alti e grandiosi, ma il Signore sa che noi siamo qui e guarda ai nostri propositi con tenerezza, sa dove possiamo arrivare e Lui ci sta accanto, con il suo amore, con il suo sguardo, con il suo sorriso paterno, direi anzi materno, e ci segue. Non dubitiamo mai della sua tenerezza e del suo Amore, anche se dovessimo sbagliare, anche se qualche volta non siamo capaci di mettere in pratica quei propositi che abbiamo fatto”.  Il pensiero di Puglisi non era astratto, ma aveva sempre al centro il Vangelo e la persona di Cristo: “Gesù è stato mite nel senso che non ha mai usato la violenza con le persone, quando queste sono state violente nei suoi confronti. Lui non lo è stato. Egli ha cercato di portare gli altri alla ragionevolezza. La violenza non pone la persona dalla parte del giusto!”. Il martire di Brancaccio non odiava i mafiosi, ma faceva appello alla loro ragione. Dopo aver ricevuto una serie di minacce aveva dichiarato in un’intervista: “Che i protagonisti delle intimidazioni tornino alla ragionevolezza, si affianchino a noi per chiedere alle istituzioni ciò che è indispensabile per la vita civile del quartiere. […] Chi usa la violenza non è un uomo. Chiediamo a chi ci ostacola di riappropriarsi dell’umanità”. Puglisi sapeva di poter morire. “Me lo aspettavo”; sono state le sue ultime parole all’assassino. Il tema del martirio, a partire dall’esempio di Gesù, ha attraversato la riflessione di Puglisi, fin da giovanissimo, quando scriveva in una meditazione del 1958: “La sua morte di croce è frutto dell’amore ed è un frutto che moltiplica questo stesso amore, potenzia l’amore al massimo grado”. E in un altro appunto manoscritto, in parole che sono un inno all’amore divino, ha rivelato la radice più autentica del suo coraggio: 

“Il vero senso del peccato sta nel tradire l’Amore
di Dio ordinatore Supremo, tutto è stato creato con un fine preciso
di Dio Benefattore: noi siamo dono di Dio
di Dio Redentore
di Dio Amico”.

Che fare della sua eredità? 

Questa domanda equivale a chiedersi: che fare della mia vita? La scelta è tra seguire il Vangelo di questo mondo, che grida: “Salva te stesso!” e vuole uomini e donne irrilevanti; oppure vivere come il mite e forte Giuseppe Puglisi, che guardava agli altri con simpatia  e cercava con loro la speranza di un mondo più umano.
Possiamo fare nostro il suo sogno: “Noi siamo chiamati a scoprire i germi di bene che sono nel mondo, svilupparli in noi e negli altri e a farli fruttificare mettendo ovunque speranza”.

(Vincenzo Ceruso, Rivista SE VUOI 5/2012)