CAST TECNICO
Titolo originale: Volevo nascondermi
Regia: Giorgio Diritti
Sceneggiatura: Giorgio Diritti e Tania Pedroni
Fotografia: Matteo Cocco del Piccolo Teatro di Milano
Montaggio: Paolo Cottignola e Giorgio Diritti
Musiche: Marco Biscarini e Daniele Furlati
Scenografia: Ludovica Ferrario
Costumi: Ursula Patzak
Durata: 120’; Genere: Biografico, drammatico
Nazione: Italia
Produzione: Palomar con Rai Cinema
Distrib. Italia: 01 Distribution
Uscita in Italia: 27 febbraio 2020
CAST ARTISTICO
Antonio Ligabue: Elio Germano
Ligabue da giovane: Oliver Ewy
Ligabue da bambino: Leonardo Carrozzo
Renato Marino Mazzacurati: Pietro Traldi
Mamma di Mazzacurati: Orietta Notari
Ivo: Fabrizio Careddu
Andrea Mozzali: Andrea Gherpelli
Nerone: Denis Campitelli
Cesarina: Francesca Manfredini
Mamma di Cesarina: Daniela Rossi
Sguardo di insieme
Il film inizia in uno studio medico, luogo dove Ligabue si è molto spesso trovato nella vita per via della sua cagionevole salute e delle sue nevrosi dovute, in parte a un’infanzia estremamente sofferta per i soprusi e per le sevizie psicologiche di ogni specie e, in parte, per l’incomprensione degli altri. Il film si apre dunque con il volto dell’artista, in primo piano, invisibile perché coperto da un drappo o da un sacco nero dal quale, grazie a una piccolissima fessura, compare un solo occhio. Questa incredibile inquadratura è la firma del regista che si impegna a mostrarci la grandeur dell’arte sotto il buio della follia, che si impegna a descrivere il diverso, l’elemento di disturbo, il rifiutato.
Dopo questo inizio, il film percorre, con continui flash-back e flash-forward che pescano nei ricordi di una vita tormentata, l’esistenza di Antonio Ligabue (Toni) fin dalla primissima infanzia e poi via via verso l’adolescenza, interpretata, la prima, da Leonardo Carrozzo e, la seconda, da Oliver Ewy.
Toni è figlio di emigranti in Svizzera. Dopo la morte della mamma viene affidato a una coppia svizzero-tedesca, ma i suoi già palesi disturbi psicofisici lo portano all’espulsione dal paese. Dopo un’infanzia atroce, il diciannovenne approda in Emilia, a Gualtieri, paese che ha dato le origini al padre. Discriminato perché italiano, emarginato perché folle. Non sa esprimersi bene in tedesco né tantomeno in italiano.
L’estrema povertà nella quale vive, sulle rive del Po, in una capanna, lo inabissa sempre più nell’isolamento perché si sente respinto quasi da tutti, fino al momento in cui lo scultore Renato Marino Mazzacurati lo avvia allo sviluppo delle sue doti naturali di pittore. Una bellissima figura, quella dello scultore, che va molto al di là dal riconoscere semplicemente l’artista in Toni, perché in Toni riconosce l’uomo. Poco a poco, grazie a lui e a buona parte della cittadinanza, Ligabue esce dal manicomio e può iniziare a vivere in maniera dignitosa e può soprattutto dipingere, dipingere, dipingere. Man mano che la critica parlerà di lui, attirerà l’attenzione di Giorgio De Chirico e dell’alta società romana.
Nonostante la gloria raggiunta, Toni resterà sempre in balia dei suoi disturbi psichici che andranno di pari passo con il suo spirito infantile che vive momenti di rabbia estrema fino a distruggere le proprie creazioni, ma che gli fa vivere anche il candore dei bambini felici quando possono acquistare qualcosa di nuovo come un cappotto e una motocicletta rossa. Ecco allora che il regista abbina l’inquadratura di Ligabue che sfreccia sulle libere strade di campagna all’Inno alla Gioia di Beethoven. Bellissimo.
Linee di lettura
Il film è articolato in blocchi narrativi indipendenti perché il regista ha scelto la via della semplicità, alla maniera di Olmi di cui è allievo. Si focalizza decisamente sul protagonista della storia che restituisce un’interpretazione di alto valore e di grande spessore: occhi, bocca, volto di Elio Germano, nel loro insieme, sono il ritratto di Ligabue al quale si aggiunge quel fare curvo, quasi il protagonista portasse il peso del mondo. Eccolo Ligabue, artista, anzi, grande artista che ha cambiato il corso dell’Arte del XX Secolo che ha anche i suoi limiti come quello del consumismo, vuole infatti acquistare il più gran numero di motociclette possibile.
Ecco Ligabue con la frenetica ossessione per il matrimonio che non raggiungerà mai, eccolo con l’assoluto autocompiacimento nel farsi chiamare e nel chiamarsi “artista” ad ogni occasione possibile. Il regista, pur seguendo i dettami del film biografico, si lascia sfuggire, attraverso le maglie della narrazione, un lungo soffermarsi sulla personalità di Ligabue e sulla sua arte così atipica, raffigurante animali che sentiva tanto vicini da esprimersi con squisita empatia gestuale e verbale nei loro confronti.
Con la stessa qualità con la quale il regista ci descrive il protagonista, ci descrive il suo entourage. Ecco allora lo scalpellino che lo protegge, ecco lo scultore che lo porta a Roma, ecco il documentarista Raffaele Andreassi che gli dedica documentari. Soprattutto ecco i bambini ai quali Ligabue si sente tanto vicino. Proprio perché nel film è tanto presente la dimensione comunitaria, spicca il “diverso”. Al di là della biografia di Ligabue, il film racconta la storia del disagio psicologico che non può fare a meno di interrogare noi spettatori. Non poche volte ci imbattiamo in persone, giovani o meno giovani, che hanno palesi o nascosti disagi psicologici. Nei loro confronti, come ci comportiamo? O meglio, chi siamo per loro? La tragedia del disagio psichico, del disperato bisogno di accettazione e di amore di qualcuno, come ci interpella? Se non siamo nella posizione di rispondere da esperti del settore, siamo sempre nella posizione di rispondere dal confine dell’essere umani.
Non è forse vero, nel film, che all’accettazione da parte dei compaesani c’è in parallelo l’attenuarsi delle crisi di Toni? Quanto può “riscattare” un’esistenza la persona buona, che capisce, che va incontro. Bellissime le riprese dei boschi e quelle sul fiume, come bellissimi ed espressivi sono i volti. Stupenda la colonna sonora. Straordinario Elio Germano che ci ha restituito un Ligabue con tutto il suo genio, con tutto il suo tormento, con tutta la sua profonda sofferenza interiore.
(Caterina Cangià, rivista SE VUOI 4/2020)