La politica del bene
comune o della pace

di AMBROGIO LORENZETTI

Ambrogio Lorenzetti (1290-1348), fine artista gotico e coltissimo figlio di una Siena fiorente, viene incaricato dal governo dei Nove di realizzare un ciclo di affreschi nella Sala della Pace in Palazzo Pubblico. Il lavoro copre tre pareti con una complessa e articolata allegoria del Bene comune o della Pace (questo il titolo originario) e della Tirannide, con i loro diversi effetti su città e contado. Nel primo caso, cittadini e contadini sono chiamati a riconoscersi “tutti intenti con le loro attività a realizzare una convivenza operosa e felice, nel contribuire al bene comune sotto la perfetta guida dei Nove” (cit. C. Frugoni).

L’alternativa è rappresentata dal regno dell’anarchia e della violenza, tra distruzione e soprusi, guerra, morte e devastazione. È ciò che spetterebbe a Siena e ai suoi domìni se venisse meno l’ottimo governo dei Nove, un’alternativa, dunque, da rifuggire in quanto porterebbe a un futuro decadente e spaventoso, causato dalla tirannia di chi tende unicamente al proprio bene.
Siamo di fronte a un manifesto politico, e l’affresco è la concretizzazione visiva di questo progetto straordinario, frutto di una stretta collaborazione tra arte e politica, in cui i Nove, dopo un periodo travagliato di lotta per il potere dentro e fuori le mura cittadine, decidono di dedicare energie e risorse per un programma politico che preveda sia l’investimento in opere pubbliche, in cui bellezza e decoro urbani coincidano con il benessere pubblico, sia la redazione in volgare degli Statuti, le norme che regolavano la vita ordinaria di tutti i cittadini senesi, affinché chi era in grado di leggere fosse a conoscenza di diritti e doveri e del corretto esercizio della giustizia.

Entrando nella sala del Palazzo, però, chiunque poteva leggere, tradotti visivamente, i concetti dell’ampio discorso politico, giuridico e religioso che stava alla base della legittimazione del potere dei Nove.
Lorenzetti, in tal senso, si dimostra un geniale interprete, che senza l’apporto di un’iconografia specifica, reinventa figure e introduce soluzioni originali per rendere visibile un pensiero politico che tocca argomenti insieme astratti e concreti, come l’interesse del singolo che deve essere subordinato a quello della comunità, un elogio della legge, del diritto e del rispetto loro dovuto. I pilastri medievali della “salute pubblica”, dunque, si reggono sulla collaborazione tra Giustizia e Comune, personificato nel Bene comune, per scongiurare divisione e inimicizia e promuovere forme di sostegno agli umili. La permanenza di quei simboli in un luogo che non ha mai mutato la sua funzione, ci porta nel cuore del pensiero politico occidentale, dove anzitutto possiamo notare una corda che nelle mani della Concordia passa ai cittadini di Siena. È una corda bicroma, risultato dell’unione di una bianca e una rossa che si dipartono dai piatti che la Giustizia tiene in equilibrio e dove, secondo Aristotele riletto da San Tommaso, un angelo elargisce la giustizia dispensativa e l’altro quella commutativa.
Senza l’equilibrio tra queste due forze, tenute insieme sulla bilancia da un’imponente figura in alto che è la Sapienza, incoronata come una regina, dalla quale proviene consiglio e ispirazione, non può esserci Giustizia. Ne è diretta conseguenza la Concordia che in basso unisce in un unico accordo i due capi in una corda che diventa emblema dell’armonia e della comunione d’intenti (cum cordis) tra cittadini. Pertanto, il Bene comune è il frutto di una partecipazione sinfonica a più voci, dove una pialla elimina anche le più piccole asperità che possono albergare nel cuore dei cittadini, per renderne possibile la libera espressione e il gioioso benessere.

(Erica Romano, rivista SE VUOI 1/2023)