QUANDO IL SILENZIO è
COMUNIC-AZIONE

Jacopo doveva essere un tipo inquieto, descritto dal Vasari come uno che “guastando e rifacendo oggi quello che aveva fatto ieri, si travagliava di maniera il cervello”, un’espressione forte quanto basta per dire l’insoddisfazione continua con cui lavorava.
Ah, scusate! Non vi ho detto che “codesto Jacopo”, Jacopo Carucci, non è che il famosissimo Pontormo (1495 – 1557), nato a Pontorme (Empoli) e vissuto a Firenze. Qui metteva mano alle sue originali pale d’altare di cui abbiamo esempi straordinari come la Visitazione, che per vedere dobbiamo fare lo stesso percorso in salita tra le colline, oggi in provincia di Prato, che fece anche l’artista. Arrivare a Carmignano, entrare nella chiesa di San Michele per la quale la pala fu realizzata e trovarsi davanti la scena di un incontro tanto domestico e privato, significa anche sentirsi un po’ nei panni di Maria che, per far visita ad Elisabetta, salì e attraversò una “regione montuosa” (Lc 1,39), quasi fosse l’unica arteria di collegamento tra le due. In quella significativa e segreta prossimità, intuiamo un passaggio avvenuto non senza lo sforzo compiuto dalla prima per accorciare le distanze, per battere un sentiero appianando gli ostacoli, per farsi azione comunicante, messaggio in cammino a cui l’altra può aprire la porta.

Pontormo materializza per noi questa storia con grande sapienza e immagina Maria appena arrivata ma ferma, in perfetto equilibrio, che guarda intensamente negli occhi la cugina, la quale invece accenna un movimento slanciato con una mano che quasi si aggrappa alla veste dell’altra. Quello di Elisabetta è un passo fuori baricentro, della pancia che va in avanti e la precede; inatteso dinamismo a cui lei associa uno sguardo dolce, materno, di immediata accoglienza, in un ricambio gioioso che non è euforia, ma comunicazione silenziosa ed eloquente tra due anime che si riconoscono visitate da un’unica sorgente che genera vita, la loro e quella che portano in grembo.

Un’opera tale ha la capacità di comunicare il senso del mistero, qualcosa di profondo che la fede legittima, ma che l’intelletto umano fatica a comprendere. Un noto studioso, parlando della “grandezza spirituale della scena” (cit. A. Venturi), ne sottolinea l’aura di silenzio, di attesa e di certezza del comune destino dei due bambini, motori dell’intera storia ma ancora ospiti nascosti, e di come invece le altre figure presenti, che fanno capolino alle spalle delle protagoniste, sembrino starne fuori, come assorte, perché di fatto stanno davvero guardando fuori dal quadro.
Guardano noi? Noi certamente sì, le guardiamo incuriositi, spinti e ammessi a partecipare a una “buona nuova” tra parenti e amici quando ancora bisogna che un segreto resti temporaneamente custodito e affidato a pochi, dove i colori cangianti delle vesti sostituiscono le parole di esultanza non dette. Un dialogo muto e intenso a cui siamo invitati per contatto visivo, non come spettatori, ma in un’intima circolarità che abbraccia ognuno dentro l’abbraccio di questa sacra conversazione.
Manifesto di una relazione d’amore dove crescono le promesse e si materializzano i sogni, restiamo in ascolto per restare in relazione, con noi stessi e l’altro, e generarne di nuovi.

(Erica Romano, rivista SE VUOI 3/2023)