Mosé e il roveto ardente
Mi chiedo spesso se il fallimento non sia diventato il nuovo tabù dell’era contemporanea, costruita a suon di efficienti device, AI e Chat-GPT. Sbagliare è un verbo messo al bando, ma davanti a questa parola penso ogni volta al mio gelataio di fiducia che è riuscito a far amare il suo speciale gusto al limone a una “gelato-dipendente-purché-non-sia-alla-frutta”: “Quel giorno ho sbagliato la ricetta! È nato così”. Il ri-nascere migliorati da un inciampo nella routine quotidiana, da una falla del sistema regolato e rassicurante, ripetitivo, da allora è diventata una metafora affascinante e golosa. Credo sia questo il motivo per cui MOSÈ mi sia simpatico. È lui, infatti, il protagonista di questa nota immagine a mosaico su una parete del presbiterio della Basilica di San Vitale a Ravenna (540-547), tra i massimi esempi di arte bizantina in Italia e patrimonio dell’UNESCO dal 1996.

In questa scena lo incontriamo in un giorno qualunque mentre pascola il gregge di suo suocero e forse è stata la noia a portarlo fuori dal solito percorso, a spingersi oltre i confini per inoltrarsi nel deserto. Il deserto è un non-luogo senza esatte coordinate, simbolo di ricerca, ritiro e raccoglimento, ma anche, nell’assenza di riferimenti certi, riflesso del proprio deserto interiore, un sentirsi nulla, un vuoto lastricato di fallimenti, di un rimuginare su illusioni franate e sogni infranti. Mosè arriva qui, in questo stato, avanti negli anni e con una storia scomoda alle spalle, quella di uno che ha fin troppo sbagliato per tornare a sperare che qualcosa di buono possa ancora fare o uscire dalla sua vita smarrita. Dall’aver fallito è passato al sentirsi un fallito.
Il mosaicista coglie così un aspetto curioso della vicenda che sta per accadere, attraverso un espediente iconograficamente inusuale. Infatti, diversamente da quanto riportato dal brano biblico dell’Esodo, fonte in cui si trova il racconto, Mosè non vede nel deserto un solo roveto che arde, ma tante fiammelle accese e vivissime nell’oro e rosso delle tessere musive: circondato da un calore che non consuma ma che sembra ridare vigore, ritrova nelle avvolgenti scintille, che si propagano da un fuoco originario, quella che ora sta per rinnovarsi proprio nel suo cuore. Lo sguardo si accende a guardare in alto, per ascoltare, e improvvisamente l’anziano patriarca diventa un agile giovane intento a slacciarsi il sandalo.
A chiamarlo è una voce chiara che lo riporta al centro della sua esistenza e l’atto di togliere i sandali è il segno che può calpestare una terra conosciuta dove i suoi piedi nudi camminano al sicuro, in cui è impossibile ferirsi. È come tornare a casa, dove a nostro agio lasciamo sulla porta le scarpe sporche e stanche per poi entrare in camera, nell’intimità di uno spazio sacro, inviolabile, stavolta specchio della nostra più autentica identità e personalità. Mosè riceve proprio qui l’invito a tornare nel luogo in cui aveva fallito per cambiare la storia, sua e di altri.
A onor del vero, non la prende affatto bene. Si ribella, avanzando fragilità e limiti reali (è balbuziente e dovrà parlare davanti a centinaia di persone), ma si fiderà e tornerà in Egitto, da dove era fuggito perché, in nome di una personale visione della giustizia, aveva distrutto delle vite e dove adesso, invece, sperimenterà solidarietà e aiuto per portare a termine un sogno di giustizia più costruttivo.
Non vi svelo il finale, è famoso, ma l’opera ricorda quanto un sogno singolare abbandonato possa tornare moltiplicato e di quanto sia importante educarci al valore della sconfitta, all’abilità di gestire cadute ed errori e a rialzarsi senza che il valore e la dignità ne siano intaccati, per costruire un’identità capace di avvertire che si può fallire.
Contro la nevrosi contemporanea della perfezione, del successo a tutti i costi e dell’apparire, un buon antidoto è l’esercizio del crescere, un percorso a ostacoli fatto di tentativi e ricalcoli continui dell’itinerario, in cui cadere fa rima con rischiare e in cui il coraggio è amico del cambiamento, perché anche fallire rende liberi, liberi di conoscerci più a fondo e ricominciare migliori e più saldi.
(Erica Romano, rivista SE VUOI 1/2024)