San Martino
divide il mantello con un povero
Lucca è un capoluogo toscano chiuso all’interno di cinta murarie ancora intatte, una fortificazione che la rende un’isola protetta non turbata dal mutamento dei tempi ma che, senza le sue porte, rischierebbe di restare ricurva sul proprio ombelico.
La città, invece, era (ed è) luogo di passaggio, aperta al transito di popoli e culture – trovandosi tutt’oggi lungo la Via Francigena –; rappresentava una delle tappe fondamentali per i pellegrini del Medioevo, un’epoca che ha fatto del simbolo la chiave di lettura per interpretare tutta la realtà.
Il viaggio stesso era sentito come una metafora della vita, un’allegoria dell’esistenza vista come un labirinto intricato e misterioso di possibilità in cui s’intrecciano tempo umano e divino, tanto da essere spesso utilizzato come motivo decorativo in molti edifici religiosi.
La cattedrale lucchese di San Martino è tra questi e chi vi arrivava cercava subito le sue porte dove, ancor prima di entrare a far visita al Volto Santo, un crocifisso ligneo creduto “acheropita” (non fatto da mano umana), trovava due segni che avrebbero aiutato il passaggio, di lì a poco, tra spazio mondano e spazio sacro segnato dal portale medievale. Prima di varcare la soglia, infatti, il pellegrino incontrava in facciata due elementi significativi, una statua monumentale del santo dedicatario e un labirinto ispirato al più noto e leggendario di Dedalo.
Allora come oggi, dunque, in facciata campeggiava la statua di San Martino a cavallo nell’atto di tagliare a metà il mantello per donarlo a un povero incontrato lungo la via che, come lui, affrontava lo stesso duro inverno: un gesto che subito interrogava il viandante sul sapersi fare bisognoso, pur essendo egli stesso bisognoso e straniero.
Chi viaggia è sempre nel bisogno, nell’assenza, nella mancanza di qualcosa, soprattutto di riferimenti, di conforto, di CASA. Quel santo sulla porta che taglia a metà ciò che lo ripara e protegge per condividerlo, doveva essere un invito ad alleggerire le spalle e ad allargare il cuore, considerando il superfluo un ostacolo, ma anche a sentirsi destinatario, come il povero, di un bene gratuito.
Sotto il portico, invece, inciso nel marmo sulla colonna a destra, ecco il labirinto di cui nei secoli non si contano le dita che ne hanno tracciato i solchi: percorsi che muovono tutti verso il centro, a suggerire che il viaggio porta al centro di se stessi dove non è possibile smarrirsi, ma solo con l’ausilio di qualcuno che fuori tesse un filo a cui affidarsi, come Arianna per Teseo. Quella del pellegrino (dal lat. peregrīnus «straniero») era davvero un’esperienza totalizzante ed estrema (nessuno partiva senza fare testamento), tra fatica del corpo e mozioni dell’anima, un doppio viaggio compiuto per cercare salute e salvezza oppure risposte per poi ritrovarsi incerti sui propri passi e pieni di domande. Anche noi possiamo essere pellegrini contemporanei invitati a visitare i luoghi non per consumarli distrattamente, ma attualizzandone il messaggio profondo, scoprendo che i gesti gratuiti continuano ad attivare catene umane di solidarietà reciproca e circolare, mentre i labirinti restano metafora di un’umanità costantemente in cerca e in cammino, dove viaggiare è anche un po’ perdersi dentro e fuori noi stessi, ritrovandoci stranieri in terre ignote, bisognosi di incontrarsi e ritrovarsi nel sentirsi accolti.
(Erica Romano, rivista SE VUOI 2/2024)