Way of peace

Dani Karavan (Tel Aviv, 1930- 2021) è un artista che nel mio percorso ho conosciuto molto presto, non di persona, ma quasi. È stato difficile per me capirlo, difficile anche accettare che nella sua poetica esistesse un materiale respingente come il cemento o tanto povero, semplice, quasi scarno come la pietra sabbiosa. Eppure è percepibile in lui una potenza inaudita e attraente. Il suo lavoro, però, non l’ho mai “capito”, bensì “sentito” finalmente quando mi è capitato di doverlo spiegare ai bambini adattandomi al loro linguaggio, ma senza giocare al ribasso. I bambini sono piccoli sì, ma i più capaci nell’intuire le altezze concettuali di certi artisti, il cui messaggio proprio in quelle loro piccole mani diventa limpido, immediato, spolverato dalle complesse logiche strutturali delle menti adulte, che hanno invece bisogno di significato, di giustificazione, di necessaria utilità.

Questa premessa era obbligata per introdurre Karavan che si distingue nel panorama dell’arte contemporanea per la sua sapienza di scultore del tempo, come a me piace definirlo, con la capacità di realizzare installazioni monumentali in cerca di una relazione profonda con lo spazio attraverso elementi minimali. Quasi come fosse un architetto (da sempre affascinato da Brunelleschi, Arnolfo di Cambio e Leon Battista Alberti), il suo sguardo si posa sui luoghi per abitarli e in parte ridisegnarli con le sue opere, le quali si inseriscono nel dialogo tra geografia e storia dei popoli portando il volume pieno di una parola corposa ma silenziosa. Osservatore attento e vicino alle difficili vicende politiche e sociali del contesto internazionale, la sua arte incarna un messaggio di pace, di solidarietà, di comunione e di restituzione di senso alle dolorose incursioni della storia odierna. Tra i lavori dedicati a tali temi, il più noto è forse Way of peace (1996-2000), un suggestivo susseguirsi di colonne in pietra color sabbia, in un percorso quasi lineare che inizia dalla vecchia città di Nitzana nel deserto del Negev per terminare dopo 3 lunghi km vicino al confine con l’Egitto. Su ogni colonna campeggia incisa la scritta “SHALOM” in 100 lingue, un invito alla pace e un omaggio ai tanti popoli che hanno abitato questa lingua di terra piena di contraddizioni. Presente e passato si confondono e le colonne, come testimoni di una nuova alleanza del tempo e della storia con l’umanità, trascinano con sé gli occhi e la mente verso uno sconfinato punto di non ritorno, dove la “via della pace” si manifesta come una costruzione lenta, difficile ma solida, che non alza muri, ma lascia spazio a nuovi percorsi e transiti, puntellata di occasioni, ma anche di possibili ostacoli e ostruzioni.
Il ritmo dei pilastri, che sembrano voler suggerire anche un impegno morale nell’esercizio della giustizia, appare come un moto perpetuo che l’intelligenza sa di dover tenere in equilibrio. Cos’è la pace, dunque, se non un perpetuo e costante esercizio corale? Nella partecipazione attiva, tra plurilinguismi e multietnicità, ogni persona è “pilastro”, colonna che contribuisce a tenere salda la terra, mettendola in salvo dalle sabbie mobili o dallo sgretolamento di fragili fondamenta, e ad aprire strade nel deserto.
La pace è forse impossibile visione per un singolo, ma sogno concretizzabile e possibile se condiviso da una pluralità di individui.

(Erica Romano, rivista SE VUOI 5/2023)