Ma tu dove hai casa esattamente?

Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Misha» .
Queste pochissime parole scritte da Etty Hillesum nelle sue Lettere, quando le ho lette per la prima volta mi hanno lasciato senza fiato, mi hanno turbato. Come può qualcuno che si sta dirigendo verso morte certa, abbandonare il campo di concentramento cantando? Come può qualcuno, a cui è stata tolta ogni speranza, riuscire a sentirsi intonato col mondo, nonostante le brutture?
La risposta mi è stata data sempre da Etty, la quale in una pagina del suo Diario, quando ormai tutto era perduto, scrive: «Io non ho nostalgia, io mi sento a casa. […] Si è “a casa”. Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi».
Queste frasi brevissime sono state un pugno nello stomaco. Ecco la risposta: per cantare, intonare melodie, lasciare che la musica copra il suono dei pensieri anche quando il male della vita storta ti attanaglia, è necessario sentirsi a casa, sperimentare il tepore del caminetto anche sotto un cielo terso, fare esperienza di famiglia anche tra sconosciuti, percepire il cuore al sicuro anche davanti al male più crudele.

Una mattina di dicembre, prendendo il treno che mi portava a Roma, mentre la mente divagava tra le cose vissute in Puglia e quelle che mi aspettavano al rientro, le braccia cercavano di farsi spazio tra i passeggeri e di recuperare presto qualche centimetro d’aria tra valigie e spintoni, mi sento salutare con indecifrabile enfasi da lontano. “Ehi, don Tony! Ciao! Quanto tempo! Come stai?” – ha urlato felice un signore con l’accento del Sud. Mi volto, lo riconosco, lo abbraccio e non posso esimermi dallo scambiare due piacevoli chiacchiere. All’improvviso mi chiede: “Ma tu dove hai casa adesso, esattamente?”. Posto 5B, ci sono. Recupero nella memoria la domanda appena fatta, tolgo ogni dubbio e ci congediamo. Nella mia mente però riecheggiava quella domanda: “Ma tu dove hai casa adesso, esattamente?”.
Quell’avverbio mi ha stravolto. Esattamente, non lo so. Esattamente non so cosa intendesse con “casa”. Se casa è il posto in cui passo la maggior parte del tempo, dove lavoro, mi spendo, allora Roma; ma se è quello in cui lascio ogni volta un pezzo di cuore e dove alla fine vorrei sempre tornare allora è Seclì (che è un paesino piccolo piccolo in provincia di Lecce), tra le mani sante di mia madre e i consigli buoni di mio padre. “Casa mia” è il treno fermo a Roma Termini ogni due per tre, un gruppo Whatsapp dal nome indecifrabile che mi regala frivolezza quando le giornate pesano troppo; la valigia che sistemo più volte al mese per raggiungere qualcuno a cui dire la bellezza della vita; una signora di ottant’anni che rinnova la tessera dell’Ac e mi insegna la fedeltà, i miei nipoti e le conversazioni di spessore su quale squadra sia più forte; “casa mia” sono i confratelli con cui condivido il pranzo, gli abbracci della gente che incontro ogni giorno. Casa mia è il Tabernacolo davanti al quale mi inginocchio portando tutto me stesso, sono le notizie di cronaca che non mi fanno dormire la notte, è l’Ac diocesana che provo ad accompagnare da un po’ di anni, sono quegli amici che mi aspettano a casa e i loro messaggi di fratellanza a discapito dei chilometri.

Quanto mi sarebbe piaciuto rispondere così a quell’uomo, con quest’elenco infinito di luoghi che sono persone, di luoghi che sono momenti. Ma mi è bastato narrare a me stesso tutto ciò per convincermi che “fare casa” significa provare a star dentro alle cose di ogni giorno insieme ad altri, essere la terra di qualcuno, l’approdo, il rifugio; accendere fiammelle dove si è spento l’entusiasmo, abbracciare la vita altrui avendo pensieri per tutti e per tutte entrando in dialogo con le fragilità e le gioie, le paure e le speranze.

Il Vangelo è costellato di situazioni nelle quali Gesù «CREA CASA» entrando e uscendo dalle case della gente, sedendo a tavola con loro, condividendo il pranzo, sostando nella camera di un ammalato.
Momenti nei quali Gesù attraverso gesti familiari e parole domestiche, apre le porte di ogni dimora verso il mondo e verso il cielo. Si fa Lui stesso porta, varco che apre l’orizzonte, trait d’union tra il tempio e il focolare, il lutto e la festa, l’ordinario e lo straordinario, i riti e i gesti, la liturgia e il quotidiano.
È questo che potremmo fare, come Chiesa e come giovani, provare a essere come Gesù, a dire ti abbraccio mondo e poi a farlo sul serio, a sentire sulla pelle l’unicità di tutti, a interessarci alla vita dei nostri amici, di chi incontriamo, ad aprire spiragli di luce dove tutto sembra ostile, a creare un “terreno buono in cui possa attecchire ogni vocazione e una casa nella quale fare Eucaristia, ringraziamento e benedizione per la Parola ricevuta e il dono di quella fraternità che è offerta della propria vita”.

(Tony Drazza, rivista SE VUOI 2/2024)