Non per forza devo essere il n°1:
Le potenzialità del fallimento

Vittoria e sopravvivenza sono legate: possiamo ipotizzare che, nella Preistoria, l’uomo vittorioso fu colui che sconfisse gli avversari e dominò nel clan, catturò la belva, sfamando il proprio gruppo, l’eroe nella tribù, che si sarebbe riprodotto, tramandando la propria eredità genetica. Oggi la vittoria è interconnessa al successo sociale, al potere politico, alla conferma delle proprie abilità. Il rischio è che la rappresentazione del mio valore personale e la frequenza delle mie vittorie si sovrappongano, influenzando la mia autostima.
A cose normali, vincere crea gratificazione, accresce l’autostima, mentre perdere causa un dolore paragonabile a quello fisico. A tale disagio risponde un’area cerebrale, il giro del cingolo anteriore, che permette di imparare dal fallimento. Ecco spiegato il detto: sbagliando, s’impara.

Talvolta, la competizione può scatenare la nikefobia (dal nome della dea greca): la fobia della vittoria, detta anche la sindrome dell’eterno secondo. È il caso degli atleti che non reggono la tensione della gara, non si sentono all’altezza di arrivare primi. Performance notevoli in allenamento, diventano mediocri in agonismo.
Ansia e scarsa autostima producono il retropensiero: “Non sono all’altezza delle responsabilità del vincente”.
L’atelofobia (da ατελής, imperfetto) è un’altra fobia specifica: la paura dei propri difetti, di fallire, deludere gli altri. Queste persone hanno standard molto elevati, da cui derivano aspettative impossibili, cui seguono frustrazione, pensiero pessimistico, rimuginio sul passato, autosvalutazione, ansia. Talvolta, tali vissuti sono così intensi da sviluppare disturbi del sonno, attacchi di panico, sintomi gastroenterici, palpitazioni, sudorazione elevata, fino all’evitamento. C’è poi chi non confida in sé, al punto da non attribuire i propri successi alle capacità personali, ma a favoritismi o eventi particolarmente fortunati. Quando ciò capita spesso, possiamo parlare della sindrome dell’impostore.

Se ti sei riconosciuto in qualcosa di quello che hai appena letto, non disperare: la consapevolezza è il miglior punto di partenza in cui tu possa trovarti. Riconoscere di avere sviluppato una strategia, magari un po’ tossica, di vivere la competizione o la sconfitta, permette di lavorarci sopra e fare tesoro dell’esperienza passata o presente, per potere migliorare gli eventi futuri.

Esplorare quale sia la reale causa del fallimento, cosa posso cambiare nel mio atteggiamento, nel pensiero, nel comportamento, nell’approccio emotivo all’evento e al risultato delle mie prestazioni, analizzare l’effetto delle mie azioni, allenarmi alla flessibilità, all’identificazione di obiettivi raggiungibili, realistici: questo è il passo successivo, per rendere un fallimento una conquista personale.

Alcuni spunti per trarre un successo da un fallimento

  L’obiettivo è realistico per me? Avrei proposto lo stesso obiettivo ad un amico, con preparazione e abilità paragonabili alle mie? Altrimenti: quale sarebbe stato un obiettivo raggiungibile per me? Lo avrei criticato con la stessa durezza?
Ricorda: focalizzati su un obiettivo alla volta

ABC: Antecedente, Comportamento (la B si riferisce all’inglese Behavior), Conseguenza. Non hai ottenuto il risultato sperato, qual è la conseguenza indesiderata? Quale comportamento ho messo in atto per ottenere tale risultato? Cos’è accaduto prima? Dove posso agire in questa sequenza, per cambiare il risultato?

Take home message: cosa ho imparato da questa esperienza?

Non identificarti con il tuo fallimento: non sei sbagliato tu, hai commesso un errore. Solo se distingui questi due aspetti, potrai comprendere l’errore e imparare qualcosa di nuovo

Non isolarti, non chiuderti in te stesso: può capitare di pensare che «a nessuno sarebbe capitato di sbagliare come ho fatto io», di vergognarsi profondamente, vivendo il fallimento come qualcosa da nascondere. Condividere i propri fallimenti con onestà, ti permetterà di scoprire che anche altre persone che conosci hanno fallito, come te, ed è possibile ripartire da lì. Parlarne ti permetterà di riflettere sull’esperienza comune e ravviverà la speranza di un nuovo apprendimento e della ripartenza

(Daniela Bonino, rivista SE VUOI 1/2024)