Il deserto dei tartari

di Dino Buzzati

Il deserto dei tartari è un romanzo del 1940 dello scrittore e gior­nalista Dino Buzzati. Lui stesso era solito narrare che quando si trovava in redazione, attendeva in una strana dilatazione temporale sempre identica, l’arrivo delle notizie da pubblicare. Dall’espe­rienza di questo tempo fermo, che già evidenziava l’alienazione dell’uomo contemporaneo, Il deserto dei tartari segnò una riflessione abissale di Buzzati sul significato del tempo e sulla sua possibilità salvifica o annientante della vita umana.
Il titolo evoca un luogo immaginario, un deserto lontano dal centro abitato, in cui si trova la Fortezza Bastiani, ultimo avamposto dinanzi a spazi immensi, una volta oggetto di assalto dei Tartari.
Qui si svolge la storia del protagonista, il Tenente Drogo, chiamato con altri soldati a presidiare la Fortezza ai confini di un territorio indefinito, disabitato, in attesa di un eventuale quanto improbabile attacco dei nemici.
All’inizio lo smarrimento del giovane Tenente era stato drammatico. Sen­tiva la nostalgia della città, delle relazioni. Gli fu consigliato di resistere i primi quattro mesi, per poi tornare a casa. Ma per una sorta di incom­prensibile autodistruzione l’attesa vana inizia ad alimentare il desiderio di un evento che non ar­riva. La vita scorre lenta e uguale, con turni e ve­glie, riposi e congedi.
I militari sottoposti a Drogo sperimentano la monotonía, tendono a un momento che tarda intorno al quale costrui­scono ora dopo ora la loro storia e il senso ul­timo del loro esistere.
Leggi farneticanti go­vernano la vita della Fortezza: un soldato allon­tanatosi per recuperare un cavallo viene ucciso perché ha scordato la parola d’ordine che lo abilita a rientrare. Pur riconosciuto dalle guar­die, la legge va applicata. Una morte da vivi, in­somma, con militari divenuti marionette di un destino cieco che in­combe sulle esistenze mutilate di tutti.
Un giorno si muove qualcosa all’orizzonte e si ac­cendono i cuori dei soldati: non si tratta dei nemici agognati, ma solo di banali spostamenti sulla frontiera per lavori di confine. Drogo nel frat­tempo è divenuto vice Comandante e si ammala gravemente. E proprio alla fine, quando gli resta soltanto il letto dove giacere, si intravedono i nemici. Così perde l’ap­puntamento atteso di tutta la sua vita e muore solo, senza eroismi mili­tari, dopo un’esistenza spesa in funzione di un evento che giunge quando non ha più forza per viverlo.
Ma c’è una consolazione: comprende che la sua esistenza non è stata co­munque vana, in ragione del fatto che la morte lo ha colto nel momento in cui poteva ancora ren­dersi conto di poterla affrontare con dignità, a conclusione di una vita di attese.
Drogo è finalmente pre­sente dinanzi al nemico più grande, quello da tutti eluso, che invece fronteggia con consape­volezza eroica e con di­gnità suprema: la morte. Proprio questo rende vera e non inutile retro­spettivamente tutta la sua storia.

Il senso del tempo oggi è una delle sfide che ci interpella di continuo. Ne lamentiamo la man­canza e allo stesso tempo trascorriamo la nostra vita spesso perdendo di vista l’essenziale. L’essere umano si dimostra irrequieto, colmo di cose da fare sul piano della quantità, ma non dinamico nel profondo. Il tempo è prezioso, am­monisce il proverbio. Ma per quale motivo? Per­ché il tempo richiede una destinazione e un significato che nessun ruolo fine a se stesso, pur di alto prestigio, può assicurare. Drogo com­prende tutto questo solo dinanzi alla morte: la sfida ultima è quella di imparare che la fine del tempo, coincide con il fine del tempo della pro­pria vita. Un tempo vis­suto senza il fine, senza cioè uno scopo supremo, alimenta una vita che sfocia in una fine senza oltre e senza sbocco.

(Cristiana Freni, rivista SE VUOI 6/2024)