Un giovane sa
di Don Andrea Lonardo
direttore dell’Ufficio per la Pastorale Universitaria di Roma
Restare umani. Restare umani, perché un giovane sa benissimo che non si è umani per natura o per nascita. Un giovane sa quanto sia facile perdere l’umanità. Un giovane sa quanto l’essere umani sia un compito e non un dato di fatto. Lo vede innanzitutto negli altri. La sua esigenza di verità e di autenticità lo porta immediatamente ad accorgersi di quanto sia facile perdere se stessi. Lo vede nella mancanza di autenticità di alcuni docenti che recitano una parte, che insegnano per uno stipendio. Se ne accorge quando manca una fiamma, una passione, in quell’insegnante che da lui pretende senza comunicare niente che ne valga la pena. Lo vede nella pigrizia di alcuni preti. Un giovane è pronto a perdonare tante mancanze dei presbiteri, ma non la loro fiacca, il loro restare in camera, la noia per una vocazione divenuta mestiere. Lo vede in un calciatore che condanna la sua squadra alla sconfitta perché non si impegna, perché si distrae nel momento decisivo. Lo vede quando pensa alla ragazza che ama, bellissima e dolce, mentre sa che alcuni adulti sarebbero pronti ad usare di lei senza amarla, mentre sa che proprio quella ragazza, per cui sarebbe pronto a dare tutto, ha paura di andare da sola per strada la sera, perché ogni persona volgare è pronta a farle proposte sconce senza ritegno.
Un giovane sa benissimo quanto sia facile dimenticare di essere umani. Nonostante tutti gli dicano che tutto è relativo, che si è già umani e che semplicemente ognuno decide di esserlo a modo suo, egli sa benissimo quanto ferisce il fatto che suo padre non sia leale con sua madre, che un amico tradisca un segreto, che la sciatteria degli adulti trasformi in peggio la vita e le situazioni.
Ma proprio perché sa che c’è una legge del cuore, proprio perché sa che esiste il bene e che è oggettivo – egli, come tutti, è in grado di riconoscerlo -, ecco che proprio per questo sta diventando umano. Ecco che sta resistendo nel mantenersi umano.
Se tutto fosse uguale a tutto, non sarebbe necessario restare umani. Lo si sarebbe già e per sempre. Un giovane sa bene, invece, che tanti hanno smarrito la via della vita e si trascinano stancamente, senza saper vivere.
Il bene e il male gli appaiono così non soggettivi, come gli viene stoltamente propinato da tanti educatori, bensì invece siano realtà che segnino le vite e, in particolare, la propria.
Ricordo una ragazza che mi diceva di essere rimasta in parrocchia dopo la cresima perché solo lì aveva sentito dire che il bene e il male li si compiono davvero. Fino a quel momento pensava che il bene e il male fossero esperienze da videogioco, dove ricominci da zero a ogni fine di schermata, con un punteggio azzerato.
“No”, si era sentita dire: “Se fai il male, qualcuno lo pagherà, se fai il bene, qualcuno ne gioirà”. Il bene e il male sono dati della realtà e il bene e il male generano conseguenze che restano lì, pesanti e vive.
Un giovane sa che è fondamentale restare umani anche per gli amici di cui ama circondarsi. Se deve scegliere compagni per una partita di pallone sceglierà quelli più leali e generosi, se dovrà raccontare qualcosa di intimo e profondo non si rivelerà a chicchessia.
Lo sa ancor più per come egli stesso desidera essere. Se, in principio, gli è più facile accorgersi di come egli sappia riconoscere chi è autentico o meno fra gli adulti che conosce, gli è poi evidente che anche lui desidera qualcosa per sé. Desidera costruirsi e non restare amorfo e annoiato.
In una bellissima scena del Lo Hobbit si vede Bilbo Beggins che si ritrova la casa invasa dai nani venuti a cercarlo per liberare Erebor. Come tutti gli hobbit è un pigro e un abitudinario e non è lieto né che la sua casa sia stata invasa dai nani, né che essi gli chiedano di seguirlo, come gli aveva preannunciato Gandalf. Ma quando il giorno dopo scopre che essi se ne sono andati, perché Erebor deve essere liberata, si getta al loro seguito finché non li ritrova, perché capisce che così deve essere.
Ogni giovane – e ognuno di noi – è come quell’hobbit, piccolo e apparentemente inadatto alla lotta, ma che pure sente che esistono delle occasioni di bene che non si possono perdere.
Ogni giovane è come un “cavaliere” che desidera combattere quella battaglia per la quale è nato, quella lotta per il bene che pian piano comprende essere necessaria.
È ben per questo che amiamo Il Signore degli Anelli o Le Cronache di Narnia, Star Wars o Harry Potter. Perché sappiamo che la vita è una lotta e avvertiamo la differenza fra restare ai margini o crescere in umanità.
È impressionante che nella saga di Harry Potter il protagonista scelga di combattere per salvare gli amici rispetto al baciare per la prima volta la propria ragazza. Che senso avrebbe stare con lei se il mondo dovesse scomparire? È impressionante che Harry giunga ad affrontare la morte pur di salvare la propria scuola e i propri amici. La Rowling ha una comprensione molto più autentica dell’animo di un giovane di tanti manuali sugli adolescenti e gli universitari.
Ma ecco che, in questa disparità fra l’umanità come la percepiamo e come sentiamo che debba essere – negli altri e poi anche in noi – si fa strada la consapevolezza che, per restare umani, non basta il proprio sforzo.
Anche questa è una delle questioni fra le più dimenticate nella riflessione odierna, così come lo era in antico, finché Agostino non venne a ricordare l’esigenza della grazia.
Sperimentiamo ogni giorno quanto sia facile ricadere sempre nelle stesse mancanze. Come sia facile maledire ogni giorno di aver passato ore e ore inutili al computer per poi ricadervi di nuovo il giorno dopo. Ogni giovane sa quante volte avrebbe desiderato rischiare per venire in aiuto della propria ragazza o per esporsi per un compagno preso in giro da anni, senza poi, però, mai sbilanciarsi a farlo realmente.
Ognuno di noi sa quanto sia difficile la costanza e la pazienza. Sa che niente di bello si ottiene senza sforzo, sa che non si può essere un giocatore di pallacanestro o un musicista, una ballerina o un vero amico, senza un impegno di ore e di anni, ma ogni volta di nuovo cade e si lascia scoraggiare.
Solo l’annuncio della grazia, l’annuncio della compagnia della Chiesa, l’annuncio della forza guaritrice dei sacramenti, l’annuncio di un perdono che permette di ritrovare coraggio, consentono di restare umani.
Una delle follie della pedagogia contemporanea è quella di aver nascosto e omesso la necessità della grazia nella vita dell’uomo. Si resta umani non per le proprie forze, ma per un dono più grande che ci supera.
Ecco la serietà e la bellezza della vita. Restare umani. Anzi capire che diventare umani è un compito. Che è un cammino lungo quello che permette di liberarsi dal narcisismo e dalla pigrizia, per giungere al dono di sé.
È un lungo cammino quello che porterà un giovane a diventare padre a sua volta. A generare quella vita umana nei suoi figli, perché ha finalmente apprezzato radicalmente l’essere umani da volere che altri lo sperimentino a loro volta, chiamati a questo dalla nostra carne.
Un giovane sa, in fondo, che diventare umani significa diventare a nostra volta padri e madri di altri umani. Non permettere che la vita termini con noi. Un giovane sa, in fondo, che diventare umani significa scegliere che la fede non termini con noi, trascurando di trasmetterla, di battezzare, di coinvolgere, quasi che fosse la stessa cosa un’Italia con o senza la fede. Non subito, ma almeno cominciando a immaginarlo.
Restare umani. Non basta nascere umani. Come non si nasce cristiani, ma lo si diventa, così si tratta di diventare umani, giorno per giorno. E, prima ancora, di scoprire che lo desideriamo realmente, che non ci viene imposto, ma che è ciò per cui siamo nati. È il nostro destino.
(da SE VUOI 2/2020)