Volevo solo DIVERTIRMI!”

“Divertirsi da morire”, scriveva un po’ di tempo fa il noto sociologo statunitense, Neil Postman. Il libro fece scalpore e creò un accanito dibattito. Lui si riferiva a qualcosa di particolare, al “Discorso pubblico nell’era dello spettacolo”, e affermava – provocatoriamente – che una “società fondata sulla televisione è una società barbarica”. Non troppo distante, però, dal “discorso” che qui facciamo a proposito di giovani e (perché no!) di coloro (anche adulti), che all’ombra dei motti “devo staccare…”, “pensare un po’ a me stesso/a…” (intrecciati in formule periodicamente emergenti), oltrepassano la soglia del ragionevole per inoltrarsi sul terreno delle avventure esagerate.

Per capire cosa sta avvenendo nella società dei nostri tempi, a volte faccio un esercizio di questo tipo. Parto dall’etimologia della parola e valuto quanto sia distante oggi l’originale significato con quello attribuito dall’opinione diffusa e determinato dalla realtà vissuta. Insomma, qui accade questo: divertimento (dal dizionario etimo.it) deriverebbe (in sintesi) da “volgere altrove”, in “direzione opposta”, “deviare”, “far prendere altra direzione”, e quindi “distogliere” e così “ricreare”, “sollazzare”. Ossia: avendo una direzione, un orientamento sulla base del quale muovere i propri passi nella vita, verificando giorno dopo giorno il progresso fatto, ad un certo punto viene voglia di segnare un passo diverso, di “staccare” creando un momento franco e possibilmente rigenerativo di forze e pensieri, per poi tornare a camminare sulla via ordinaria tracciata. E non perdersi.

Penso che oggi sia proprio questa difficoltà ad accettare una comune ordinarietà dei propri percorsi di vita che rende sempre più esasperata la necessità di divertere, di “trasgredire”, di “esagerare”, di lasciare traccia in un’esperienza non replicabile. Quindi si alza l’asticella, ci si impone sempre di più e di più forte. Perché altrimenti, dopo, come si può tornare alla vita (a volte noiosa e normale) che è fatta di feriale e di doveri? No, non si può. E per questo che l’etimo del dizionario ha già previsto tutto. Perché nell’indicare la funzione intrinseca di questa deviazione voluta, desiderata e coltivata, la associa a quella di distrarre così “l’animo da cure e pensieri molesti”. Ecco: per molti, quello che non è divertimento, è, inevitabilmente, un “pensiero molesto”. Una nube grigia che bisogna quanto più è possibile diradare con lo sballo, l’eccitazione condivisa, il rischio imprudente ed emozionante, la trasgressione magari filmata e riprodotta sui social. Temo che sia una nota dominante di questi tempi.
Appare non di rado, invece, che la metrica che spinge tanti a entusiasmarsi a una vita vissuta nelle coordinate (normali?) che ci si è imposte da sé, è già intrisa di “divertimento” e passione, e che non serve perciò guardare altrove, spesso, purtroppo, rischiando la vita propria e quella altrui.
Ma porre il tema sulla base di un diritto presunto o esistente, che si può mettere in discussione ed eventualmente criticare per le cadute, non è terreno facile e praticabile. La logica del “della mia vita faccio quel che voglio…”, sembra non avere oppositori. E sia. Ma per educatori (genitori, pastori, professori, animatori, che siano…), oso proporre un esperimento penso utile (e divertente?). Anche solo per poter attenuare nei gruppi di coetanei, l’impatto dei più “arditi”, sull’immaginario e le coscienze di coloro che sono meno “coraggiosi” dei primi e risentono dell’influsso deleterio di quelle narrazioni dense di esperienze di “divertimento estremo”.
Siccome anche oggi, nell’era del dominio dell’immagine, il potere delle parole non è venuto meno, anzi, in alcuni casi, se bene usate, si è rafforzato, propongo di invitare in gruppo i più accesi sperimentatori di divertimenti “inenarrabili”, a farlo scrivendo, raccontando passo dopo passo. Lo so, so bene che questa è l’epoca dei selfie e dei microvideo dei social. Ma proviamo – con fatica – a giocare sul desiderio proprio di lasciare traccia, di metterlo nero su bianco, di condividere (se possibile) almeno il racconto di quell’esperienza. Di rifletterci su, magari, perché no, individuando gli aspetti più delicati e critici, trovando le parole giuste per descrivere le emozioni vissute. No, non è facile e non mi illudo. Ci vuole tempo e la capacità di accettare ed elaborare qualche sconfitta. Alla lunga può favorire riflessioni più consolidate…

Dobbiamo essere consapevoli che alzare il dito, puntarlo sull’imputato e dire ad alta voce: “E no, così non si fa!”, davvero oggi non solo non funziona più, ma può persino essere controproducente. In questi casi avremmo – forse – assolto la nostra coscienza di educatori, ma senza aver contribuito a una sia pur minima riflessione del giovane di turno.

(Vittorio Sammarco, rivista SE VUOI 3/2023)