Riprendiamoci il corpo
(SE MAI POTESSIMO SMARRIRLO)!
Noi “abbiamo un corpo” o “siamo il nostro corpo”?
La risposta a questa domanda è decisiva. Se “abbiamo un corpo”, possiamo decidere di disporne come più ci piace, se “siamo il nostro corpo”, non c’è nulla di cui poter disporre, siamo semplicemente noi così come siamo. E non siamo un corpo inerte, ma un corpo vivente e senziente fin dagli inizi del concepimento (il bambino già nell’utero materno percepisce la voce della madre e reagisce attivamente alle sue emozioni).
A ben pensarci, non esiste esperienza umana che non abbia una profonda implicazione corporea, che non sia “incarnata”. Tutto quello che facciamo, perfino le esperienze più mentali come i sogni e le fantasie, attraversano e trovano espressione nel corpo. Questa è la caratteristica propria dell’essere umano: biologico e mentale sono sempre inestricabilmente intrecciati!
Cosa ne deriva?
Se viviamo pensando di “avere” un corpo, lo interpretiamo come un bene di cui godere, da esibire – pensiamo al successo delle palestre, dei centri benessere, dei social network. Abbiamo in mente, in altre parole, un “corpo per l’individuo” che si può usare, cambiare, prestare.
Se, invece, viviamo pensando di “essere” il nostro corpo, non possiamo che fare i conti con ciò che ci è dato e non abbiamo scelto; in altre parole accettare i nostri limiti, cercando di sviluppare le potenzialità insite nel nostro essere. Noi siamo ciò che siamo, non possiamo scegliere di nascere femmine o maschi, non possiamo scegliere il colore degli occhi, soprattutto non possiamo scegliere la famiglia in cui siamo nati e verso cui siamo debitori per il patrimonio genetico e simbolico che ci ha trasmesso.
Possiamo trovarci più o meno a nostro agio con le circostanze che ci troviamo a vivere, ma esse si presentano a noi al di là del nostro controllo e/o piacere.
Questa formulazione potrebbe farci erroneamente pensare che l’accettazione del limite sia un’esperienza negativa.
In realtà, il limite (dal latino “limes”) è il confine che definisce lo spazio entro cui possiamo esistere da quello in cui non possiamo esistere.
Non si tratta di una linea sul vuoto, ma al di là della quale c’è un territorio inesplorato da incontrare che è l’altro. Il mio limite è ciò che mi mette in connessione con l’altro. Il confine distingue lo spazio entro il quale “possiamo esistere in noi stessi” da quello entro il quale “possiamo esistere nell’altro”.
Così ragionando, spostiamo la prospettiva da una dimensione narcisistico-individualistica (che mette al centro l’individuo con i suoi bisogni) verso una dimensione relazionale, quella del “corpo in relazione”. Noi siamo plasmati dalle relazioni corporee che ci hanno preceduto e in cui siamo immersi; veniamo da una storia di corpi di cui portiamo i segni (pensiamo ad esempio quando nasce un bambino la gara che inscenano i parenti per cogliere le somiglianze fisiche) e siamo legati alle nostre origini. Non a caso scegliamo di usare la parola “legame”: il limite non è infatti da intendersi in accezione negativa come uno spazio chiuso che ci imprigiona e ci impedisce di essere liberi; il limite ha l’accezione positiva della linea che crea e mantiene il legame con gli altri, in altre parole non ci fa sentire soli.
Ma perché accettare il limite è così difficile?
Perché il limite ci riporta alla morte, alla finitezza della carne e questo pensiero ci spaventa, vogliamo prenderne le distanze il più possibile. Qual è l’inganno dietro questo meccanismo con cui cerchiamo di difenderci? Pensare che sia possibile negare il limite, di essere immortali. Ma noi siamo esseri mortali e proprio qui sta il paradosso, perché è la consapevolezza e l’accettazione profonda del limite umano a trasformarsi in potenza straordinaria, a renderci capaci di uscire da noi stessi per donarci agli altri e fare il bene. Questa è la formula della felicità!
Questi anni di pandemia sono stati un duro attacco al corpo: ci hanno tenuti distanti fisicamente, ci hanno impedito di muoverci, ci hanno chiesto di immaginarci in luoghi diversi da quelli in cui eravamo (“siamo a casa, ma siamo a scuola”). E siamo stati male, stiamo ancora male. Perché?
Perché l’attacco al corpo è l’attacco alle relazioni: la solitudine ci fa soffrire, noi abbiamo bisogno di relazioni per esistere. La vita non è un viaggio in solitaria.
(Elena Canzi, rivista SE VUOI 3/2022)