Gettare ponti e lenire ferite
di FRANCESCA CIARALLO, Operazione Colomba
“Il primo fu un viaggio lampo… partimmo su una 127 bianca e scassata. Avevamo soltanto 36 ore di autonomia, le famiglie non ci avevano concesso di più. Eravamo in due, io e Alberto… Allora la guerra era terreno dei militari e noi obiettori di coscienza facevamo tante iniziative e manifestazioni, ma nulla di particolarmente concreto.
Pensai ‘dobbiamo partire!’. I militari andavano nelle guerre, perché noi no? Don Benzi ci appoggiò incondizionatamente. Non avevamo una meta specifica. Certo non volevamo morire, ma neppure stare lontani dal fronte, così la prima tappa fu la Caritas di Trieste, poi quella di Fiume, e infine Zara. Arrivammo di sera in questa città fantasma, piena di trincee, di sacchi di sabbia. Un anziano claudicante girava solo per strada. Ci indicò un hotel, dove dormivano i profughi. Quello fu l’inizio…”.
Così Antonio, obiettore di coscienza e uno dei fondatori di Operazione Colomba, ricorda il primo viaggio, allo scoppio della guerra in ex Jugoslavia, nel giugno 1992.
Nei primi anni ‘90 la struttura politica dell’Europa stava cambiando e, di conseguenza, anche il modello di difesa che l’Europa aveva adottato fino ad allora, modulato sulla “guerra fredda”: la Russia era il nemico, tutte le caserme erano sul lato Est dell’Italia, la logica era di rispondere a una possibile invasione dell’Unione Sovietica. Con la caduta del muro di Berlino l’esercito inizia a uscire dai confini dell’Italia, ci sono le prime missioni in giro per il mondo: Libano, Somalia… In parallelo cambia anche il modello di difesa nonviolento.
La Comunità Papa Giovanni, all’epoca, partecipava al cambiamento di paradigma. Dal punto di vista della nonviolenza, diventava normale andare in giro per il mondo dove c’erano conflitti. Modelli erano stati Gandhi in India e Martin Luther King negli Stati Uniti, non certo si pensava a un contingente di civili che partisse, lontano dall’Italia.
OPERAZIONE COLOMBA nasce dunque, in questo contesto, da un gruppo di obiettori di coscienza, all’interno della vocazione della Comunità Papa Giovanni; attraverso la condivisione di vita con le vittime e, tenendo sempre stretto il contatto con chi vive situazioni di violenza, porta avanti azioni di pressione istituzionale, lobby, denuncia delle violazioni dei diritti umani.
L’obiettivo finale è elaborare una risposta nonviolenta che, proprio perché nasce dalla vita con le vittime, deve essere estremamente concreta, anche se questo comporta lavorare con le diverse parti, dove possibile, anche quando una di queste parti sembra il male assoluto.
In una frase, “Gettare ponti e lenire le ferite”. E questo si può fare solo vivendo con le persone, dando valore ai legami che si creano. Entrare in un conflitto vuol dire togliere un po’ di dolore che le persone stanno portando, spesso non per colpa loro.
Da allora più di 2500 volontari impegnati; più di 20 conflitti “abitati” in Europa, Africa, Asia, America Latina; innumerevoli azioni di denuncia; incontri con le istituzioni italiane e internazionali; decine di articoli, corrispondenze e interviste sui principali media italiani e internazionali ogni anno e, soprattutto, migliaia di vittime con cui si è condiviso un cammino. Oggi sono 6 le presenze attive: Palestina, Libano, Siria, Colombia, campi profughi in Grecia, Cile (tra i Mapuche) e in Ucraina dall’inizio del conflitto.
Tutto questo è difficile da raccontare, sono tanti gli aneddoti che le “Colombe” si portano dentro, piccole storie di vita, piccole storie che fanno la Storia. Certamente c’è ancora tanta strada da fare, però si va avanti, consapevoli che le energie e il sostegno non verranno mai meno finché si sta “dalla parte sbagliata della storia”, dalla parte del foro della canna di un fucile e non da quella del mirino: da questo atto di coraggio e fantasia sono fiorite speranze e nonviolenza in terreni che sembravano destinati a essere aridi.
Se un’alternativa alla guerra non parte dalla vita insieme a chi ne paga le conseguenze, a chi subisce la violenza in prima persona, difficilmente si potranno fermare i conflitti. Anche nei momenti più difficili, c’è una possibilità di voler bene, di alleviare il dolore di chi subisce la guerra. Perché la fine della guerra non arriverà da sola, ma solo se uniamo gli sforzi.
(rivista SE VUOI 5/2023)