LA PESTE

Albert Camus - a cura del prof. Andrea Bizzozero*

“Dichiarato lo stato di peste. Chiudete la città […]. Da quel momento si può dire che la peste riguardò tutti.”

Siamo in compagnia di Albert Camus, e del suo LA PESTE, romanzo molto frequentato in questi mesi, e che ha permesso di rileggere da altri punti di vista la vicenda drammatica che ci ha visti protagonisti. In effetti il romanzo, come ogni narrazione, ha qualcosa di sorprendente perché mentre racconta la sua storia, si offre al lettore come possibilità per leggere, riconoscere o addirittura dare un senso alla propria.

Accade così anche quando si legge LA PESTE, un racconto che mi racconta, che apre nello spazio della lettura orizzonti ulteriori che si dimenano e provano a svincolarsi dalle prese del “si pensa”, del “si dice”, del “si fa”, per restituire la libertà di essere protagonisti con il proprio pensiero, il proprio dire e il proprio fare.

Questo luogo così poco pittoresco, privo di vegetazione e privo di anima, risulta, a conti fatti, riposante e, alla fine, ci si addormenta. Intorpiditi dalla quotidianità della vita, dissolti nel loro mondo chiuso e senza orizzonte, nulla poteva far prevedere ai nostri concittadini gli incidenti che si sarebbero prodotti. Nella sua drammaticità la vicenda è semplice, crudele, devastante, proprio come quando le disgrazie irrompono in una vita che si è assopita all’ombra delle frenesie del quotidiano.
La cronaca racconta della sorpresa di assistere allo stravolgimento della vita di quella tranquilla e ordinaria città del mediterraneo.

La chiusura delle porte della città, segnò l’inizio di una sempre più drammatica separazione dal resto del mondo circostante, si tratta di una vera e propria reclusione, un esilio dagli affetti di quanti sono altrove, una separazione che getta nell’abisso e nella solitudine.

“Sì, era proprio il sentimento dell’esilio il vuoto che sentivamo sempre dentro di noi, le emozioni precise, il disagio irragionevole, dal quale si può evadere solo grazie alla fantasia. Anche questa però dovrà cedere di fronte alla realtà dei fatti e allora ritroveremo la nostra condizione di prigionieri. Nella prigione di questo esilio, insofferenti al presente, nemici del passato, privi del futuro, eravamo come quelli che la giustizia e l’odio fanno vivere dietro le sbarre.”

L’immagine desolante, una città assediata dalla peste, capace di spegnere i colori e fugare ogni gioia. Che cosa fare in tali condizioni?
Ed ecco che il misterioso Tarrou, nel suo dialogo con Rieux, il medico in prima linea nell’assistere gli appestati, rivela la possibilità di una inedita libertà. Nel constatare la necessità di avere degli operatori che si prendano cura dei malati, e che si prestino in qualche modo a far fronte alla drammaticità della situazione, Tarrou propone di costituire un gruppo di volontari che si assuma tale responsabilità. Si tratta di uomini liberi, che scelgono di dare vita ad organizzazioni sanitarie volontarie: un’intuizione geniale per far fronte all’emergenza certo, ma non solo.

Il lettore non tarderà a riconoscere che proprio nella proposta di Tarrou il narratore allude ed evoca una particolare forma di libertà, quella che se non fa evadere dalla città, decide di radicarsi con impegno e responsabilità nella città assediata dalla peste. Una libertà inaudita che decide volontariamente di prendersi cura delle sofferenze degli altri, una volontà che risponde alla drammaticità del reale senza cedere alla disperazione o all’evasione.

“Non so cosa mi aspetterà né cosa succederà dopo tutto questo. Per ora ci sono dei malati e bisogna guarirli. Dopodiché rifletteranno e io con loro. Ma la cosa più urgente è curarli. Li difendo come posso. Tutto qua”.

Così Rieux, il medico, rende ragione della sua decisione: la libertà consiste nel decidere di lottare contro la peste, di prendersi cura di quanti ne sono colpiti, di difendere l’intera popolazione. Nel momento in cui la peste mortifica ogni speranza, o sostiene ogni cinico opportunismo, come quello di Cottard il quale potrà affermare: “io nella peste mi ci trovo bene, non vedo perché dovrei prendermi la briga di farla finire”… Grand, Tarrou, padre Paneloux, il medico Rieux, sono i protagonisti di una vita che si lascia risvegliare dal torpore annichilente dell’egoismo e decide di lottare.

“In una maniera o nell’altra, bisognava lottare e non mettersi in ginocchio […]. Non era una verità grandiosa, era solo una verità coerente”.

È il grido che risuona nella città prigioniera del dolore e della sofferenza che fa sgorgare la nuova e inaudita libertà, quella della compassione e dell’amore, perché, dice il narratore, non c’è altra risposta che amare o morire insieme.

La libertà di questo amore, per l’umano, questo lavorare insieme per il bene dell’altro, crea un nuovo sodalizio e una fraternità ancor più forte e radicata di mille ideologie e confessioni religiose. Ne sono testimoni proprio il medico e il predicatore che, se in disaccordo su Dio, si ritrovano gomito a gomito ad amare l’umano.

Così, parla Rieux:

“non voglio discutere di questo con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che ci accomuna al di là delle bestemmie e delle preghiere. Solo questo conta. Io odio la morte e il male, lei lo sa. E, che voglia o no, siamo insieme per sopportarli e combatterli. Lo vede, adesso nemmeno Dio può separarci”

Cessato il pericolo della peste, aperte le porte della città, concluso l’esilio, c’è chi vorrebbe che tutto tornasse finalmente ai colori smunti di quella quotidianità senza grandi passioni ma anche senza troppe inquietudini.
Rieux il medico, che ha raccontato l’assedio di Orano, e più ancora il profumo dell’amicizia e il bagliore della libertà al tempo della peste, che cosa ha guadagnato?

“Soltanto di aver conosciuto la peste e di ricordarselo, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarselo, di conoscere l’affetto e di doversene un giorno ricordare. La conoscenza e la memoria era tutto ciò che l’uomo poteva guadagnare al gioco della peste e della vita”

Per la recensione completa, in formato mp4, clicca qui: La Peste _ Albert Camus, a cura del prof. Andrea Bizzozero, *professore di Filosofia presso la Pontificia Università Antonianum di Roma.

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