4 Novembre 2022
- Spazio Bibbia, Bereshit

Commento alla prima Lettura della XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C,
a cura di M.Francesca e Letizia ap

Dal secondo libro dei Maccabèi (2Mac 7,1-2.9-14)

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite.
Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».
Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture.
Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».

Quando si avvicina la fine di qualcosa, si tirano le fila e ci si fanno le domande che contano. Così avviene mentre ci avviamo al termine di un anno liturgico.
Cosa mi aspetta dopo la fine? Cosa mi aspetto dalla vita e in quale orizzonte colloco la mia esistenza?
Sono anche queste le domande che suscita la vicenda del martirio dei sette fratelli e della loro madre, al tempo delle persecuzioni giudaiche del II – I sec. a. C. ad opera di Antioco IV Epifane, nel periodo più buio della dominazione ellenistica.
Due attestazioni di fede spiccano in questo stralcio del commovente racconto di testimonianza (cioè martirio): il corpo dato per la fede nel Dio Creatore; la speranza della risurrezione.

“Dal Cielo ho queste membra…” (v. 11). Dio non dimentica l’amore che noi nutriamo verso questa vita terrena ricevuta proprio così, nel nostro corpo, nella fragile esistenza. “Vorrei sapere del corpo la parola non detta, che è iscritta in esso, che ne dice il significato e il destino. Perché, se non la comprendiamo, distruggiamo il corpo facendone un assoluto, un idolo, un vuoto a cui sacrificare la vita” (C.M. Martini). Se invece la comprendiamo, la parola non detta del corpo è dono per esistere e per amare. Solo quando è percepito come dono del Dio della vita, il corpo può essere dato per amore nelle quotidiane uscite da sé che richiedono sacrificio e consumano la nostra esistenza (tempo, energie, forze, possibilità…). È così che possiamo già gustare la nostra vita risorta a partire dalla fede nel Dio Creatore e amante della vita (Cf Sap 11,26).  

“Da Dio si ha la speranza…” (v. 14).La speranza è una possibilità che Dio ci dona per essere felici. È esercizio per buttarsi un po’ più in là, affidarsi nonostante tutto fino a perdere la vita, come è stato per i numerosi martiri di ogni tempo.
Chi vive della fede biblica nella risurrezione, che brilla in modo decisivo nell’esperienza di Gesù risorto e vivo!, può impostare la sua esistenza non come risposta alla paura della morte, ma come spinta oltre lo sguardo immediato e limitato del momento, come risposta al Dio della vita.
Il Signore è “Colui che si rende eternamente presente per amore” (G. Odasso), è il Dio delle persone, Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe (Lc 20,27-38), il Dio di ciascuno dei sette fratelli martiri della fede, e della loro coraggiosa madre; è il Dio che porta il mio nome scritto sul palmo delle mani (Cf Is 49,16). La buona notizia che ci viene annunciata è che possiamo giocarci la vita fino in fondo, sapendo che poniamo la nostra fiducia nel Dio della vita che ci conosce per nome e non ci dimentica.


Qôl/call

“Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui” (Lc 20,38). Con quale scelta di speranza posso gettarmi oltre (oltre il mio orizzonte visibile, oltre i bisogni che ho nel momento presente, oltre le mie preoccupazioni…) per vivere con tutto me stesso la vocazione a essere dono?

sr. Letizia 
molesti.l@apostoline.it