Commento alla prima Lettura della XXXI Domenica del T.O. (ANNO A),
a cura di M.Francesca e Letizia ap
Dal libro del profeta Malachìa (1,14b-2b.8-10)
Poiché io sono un re grande – dice il Signore degli eserciti – e il mio nome è terribile fra le nazioni.
Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione.
Voi invece avete deviato dalla retta via
e siete stati d’inciampo a molti
con il vostro insegnamento;
avete distrutto l’alleanza di Levi,
dice il Signore degli eserciti.
Perciò anche io vi ho reso spregevoli
e abietti davanti a tutto il popolo,
perché non avete seguito le mie vie
e avete usato parzialità nel vostro insegnamento.
Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?
Ultimo libro dei Profeti, e ultimo dell’Antico Testamento nella Bibbia cattolica, il libro del profeta Malachìa contiene l’annuncio appassionato del “messaggero del Signore” (questo il significato del suo nome), difensore dell’amore di elezione di Dio per il suo popolo.
Il libro di Malachìa (scritto in epoca persiana tra il 450 e il 350 a.C.), è l’ennesimo tentativo di richiamare il popolo alla sua identità, di creare la consapevolezza, la coscienza della propria vocazione a essere popolo di figli amati, creati, scelti.
Malachìa lo fa prendendo in prestito le parole che, in particolare i sacerdoti, dicono e pensano.
Come in un’aula di tribunale, il profeta prende le parti del Signore contro il suo popolo, per annunciare con forza e chiarezza che l’amore di Dio che li ha eletti dovrebbe generare stupore, meraviglia, gioia, insieme al desiderio sempre più grande di corrispondervi nelle azioni.
Invece, la risposta del popolo, che Malachìa vede, è di tutt’altro genere.
“Se non metterete sul cuore di dare gloria al mio nome…” (v. 2,2, traduzione letterale). “Mettere sul cuore” significa darsi pensiero, avere premura, prendersi a cuore, ed è l’atteggiamento di chi sa di avere a disposizione qualcosa di prezioso e lo custodisce con attenzione.
Invece, denuncia amaramente il profeta, il culto di Israele e la sua vita quotidiana dicono trascuratezza, che è disprezzo del dono di Dio tanto da arrivare a dare per scontata la Sua presenza, la sua gloria.
In ebraico “gloria, kabod”, viene dal verbo “kabed”, essere pesante. Indica una realtà visibile, manifesta in termini di prestigio, ricchezza, onore. La gloria di Dio è la manifestazione di se stesso come padre, creatore, Signore della storia, attraverso le sue azioni di liberazione e di promozione della vita.
Dare gloria al nome di Dio significa, allora, avere ogni premura di comportarsi come lui, nella certezza che Egli non sta lontano da chi ascolta la sua Parola, e risponde alla sua chiamata con umiltà svolgendo bene il proprio compito.
Qôl/call
Qual è il meglio, l’offerta più pura, generosa che posso fare oggi, perché diventi dono a disposizione del Signore e delle persone a cui mi manda, segno visibile della Sua gloria?
sr. Letizia
molesti.l@apostoline.it