13 Gennaio 2023
- Spazio Bibbia, Bereshit

Commento alla prima Lettura della II Domenica del T.O.,
a cura di M.Francesca e Letizia ap

Dal libro del profeta Isaìa (49,3.5-6)

Il Signore mi ha detto:
«Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Ora ha parlato il Signore,
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele
– poiché ero stato onorato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra».

Ci troviamo ancora in compagnia del Servo del Signore, un personaggio che ha molto da dire alla nostra vita e al senso con cui la viviamo.
Innanzitutto servire, pensare alla propria esistenza come un servizio, è segno di aver accolto la rivelazione più profonda e sostanziale, quella di riconoscersi “figli di Dio”.
In greco la parola ebraica ‘ebed, utilizzata da Isaia nei canti del Servo, viene tradotta con varie espressioni; le più significative sono servo, appunto, e figlio.
Ed è suggestivo anche il significato che la stessa parola assume in aramaico biblico (un dialetto dell’ebraico parlato al tempo di Gesù): ‘ebed  diventa in aramaico talyà’, che vuol dire servo, figlio, agnello.
Tutte queste sfumature di significato indicano il rapporto specialissimo che questo personaggio ha con il suo Signore. Chi parla nel testo di Isaia, conosce la volontà di Dio sulla propria vita perché la porta scritta, plasmata, nella sua carne di figlio, anche dentro alle sue stesse contraddizioni.
Il servo/figlio del Signore confessa, infatti, di aver a un certo punto sprecato le sue forze per niente: «Io ho risposto: “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze”» (Is 49,4). È possibile che succeda anche a noi di ridurci a vivere per cose di poco conto, dimenticando così la presenza del Padre che ci ha chiamati alla vita per una missione significativa.
Questa missione è essere suoi figli, non la possiamo dimenticare perché è scritta nel nostro corpo come nel corpo del profeta, scelto e “tessuto da Dio” sin dal grembo materno (v. 5; cf Ger 1,5).
Il nostro corpo, allora, dice la paternità di Dio, diventa certezza di essere stati scelti, plasmati, voluti come figli. È questa la realtà dell’Incarnazione che abbiamo appena celebrato nel tempo di Natale: Gesù è il Figlio, il Servo, l’Agnello di Dio (Gv 1,29-34) venuto a vivere la nostra stessa vita e, in essa, a manifestare nello Spirito la realtà inesauribile della nostra figliolanza col Padre.
Il nostro corpo è testimone di un Dio che quando pensa alla nostra vita la pensa in grande.


Qôl/call

Provo a guardare al mio corpo di donna, di uomo, per scoprire che lì oggi è scritta la paternità di Dio che mi ha scelto prima che venissi al mondo consegnandomi una missione. Mi ha scelto per essere, nella relazione filiale con lui, luce per altri… Per chi sono io?

sr. Letizia 
molesti.l@apostoline.it