Commento alla prima Lettura della XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) a cura di M.Francesca e Letizia ap
Dal libro del profeta Isaìa
(Is 5,6-9)
Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna.
Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.
Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.
“Il cantico della vigna” del profeta Isaia può sembrare un canto di un agricoltore deluso che racconta la propria esperienza. Subito ci si accorge però che è un canto d’amore e un oracolo di accusa.
Sin dalle prime parole del profeta si vede il suo coinvolgimento in quello che sta per raccontare perché sta prestando la voce a Dio, suo amico: «Voglio cantare per il mio diletto». Dio ha bisogno di amici che condividano la sua stessa passione per l’umanità e la storia, come i servi del vangelo di oggi, disposti a pagare le conseguenze di questa amicizia vissuta fino in fondo.
Forte del suo bene per Dio e per l’uomo, il profeta inizia a raccontare l’amore di Dio per la sua vigna. Dio è definito, secondo una possibile traduzione del testo originale, l’amante della vigna, potremmo dire “lo sposo” se immaginassimo la vigna, come una donna. Dio è quindi uno sposo che ha investito sulla relazione d’amore: ha piantato vigne pregiate; ha costruito una torre in mezzo alla vigna (quando sarebbe bastata una semplice capanna per gli attrezzi) e ha atteso. Solo che la risposta della vigna è stata quella di produrre acini acerbi invece che uva.
È a questo punto del racconto che nel testo irrompe la voce di Dio/sposo/amante che dà sfogo alla sua delusione e al dolore per non essere stato corrisposto: «Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?».
Attraverso la vigna, Dio sta parlando ad Israele che, come una sposa infedele, non ha corrisposto all’amore ricevuto perché ha dimenticato di essere un popolo di fratelli. Nella vigna del Signore non può esserci spazio per l’ingiustizia e l’oppressione; per le grida degli oppressi in luogo dei canti di gioia. Dio accusa perché ama, nella speranza che il popolo si converta e torni a lui e che torni nel suo regno la giustizia. Sarebbe bello riuscissimo a essere come Isaia, coinvolto con tutto se stesso per aiutare il suo amico e se nella vigna del Signore ci fossero frutti buoni di accoglienza, rispetto, attenzione ai più deboli.
Qôl/call
Prestiamo la voce a Dio ogni volta che il grido di un povero non è ascoltato e proviamo ad amare la vigna, umanità, di cui anche noi facciamo parte, perché riscopra l’amore dello Sposo-Agricoltore.
sr. M. Francesca
frasca.mfrancesca@apostoline.it