5.

Chiara Scardicchio – Convegno Nazionale Vocazioni 2022

Clicca qui per leggere i consigli di lettura

Questa espressione così particolare per noi umani che è il fare, è una dimensione assolutamente sacra che riguarda il nostro non sentirci passivi rispetto a ciò che accade, rispetto alla creazione, ma anzi chiamati a co-creare, chiamati a corrispondere  a un progetto in cui non ci è chiesto un sì soltanto formale ma un’adesione sostanziale che riguarda l’incarnazione. È importante chiederci qual è il significato che attribuiamo all’espressione “fare”, perché anche a noi può capitare di misurarci in termini di performance, di risultati raggiunti, di misurare l’attività pastorale nella misura in cui riusciamo a portare “roba”, “cose” in un offertorio in cui tendiamo a vivere la tentazione di starci in forma pagana. Cosa intendo dire? L’offerta, nelle forme pagane precedenti alla venuta di Gesù, è l’offerta delle primizie, del frutto buono, del lavoro intenso come bravura, capacità: “ti do il buono che ho fatto” come una specie di patente che debba far guadagnare il merito (vedi il giovane ricco). L’offertorio che riguarda la postura interiore nella nostra vita intima e politica, dopo l’incontro con Gesù, è poter portare sull’altare vitale anche ciò che non siamo riusciti a produrre, è un’offerta di tutto il bene che, tramite lui, non per nostro merito, è avvenuto nella storia in cui abitiamo, e anche di tutto quello che non siamo riusciti a realizzare. Possiamo scambiare il fare con il produrre, non con il co-creare!

Nell’intraprendere il viaggio della sequela, non possedere la meta finale significa non avere la presunzione di conoscere la strada dove Dio ci porterà, come è accaduto al popolo di Dio nel deserto che ha percorso in quarant’anni una strada che invece avrebbe potuto percorrere in molto meno tempo, zigzagando… quello stesso zigzagare ha un senso nel progetto di Dio! Stare al cospetto delle nostre cadute, delle nostre fragilità: “non so fare, non riesco a fare, non ce la posso fare”, avendo cura di non scambiare la resilienza con la presunzione del “posso farcela”. La resilienza non ha a che fare con il “non mi spezzo, non muoio, resisto”, ma con l’attraversare l’abisso. In questo tempo cosa significa per noi? L’abisso di una storia caratterizzata da una mutazione velocissima, antropologica, ci dicono gli studiosi. L’uso simbiotico con gli smartophone porta a mutazioni del funzionamento cerebrale che riguardano anche mutazioni relazionali. La chiamata alla co-creazione, alla fecondità vocazionale credo riguardi lo stare senza farci travolgere, fare la storia restando nella nostra identità

Occorre riconoscere il filo doppio che lega intimità a politica … Prenderci cura della veglia, del nostro spazio interno, è questione politica.

Si tratta di fare la storia vegliando in una forma di pura intima politica. Per cui mi chiedo: “cosa sta accadendo, cosa posso fare”, e aspetto… e mi do il tempo opportuno per tenere nel grembo interiore quello che accade. Mentre invece ci succede di essere agganciati dalla tentazione di non stare in un tempo di sosta, perché per noi è inefficienza. Ma possiamo essere fertili soltanto nella misura in cui accettiamo un tempo di gestazione.