La Parola, come ogni ‘parola’, opera all’interno di un ‘discorso’, ma quest’ultimo non può realizzarsi all’infuori di un contesto relazionale. Il discorso, nel quale Dio ci parla e noi parliamo di Dio, presuppone lo stabilirsi di un certo rapporto fra persone che si sentono vicine, anche quando tra loro corre una grande distanza. Forse è proprio in virtù di questo legame tra Parola e relazione che noi, coristi della Chiesa Universitaria di San Frediano, abbiamo raccolto le forze per ‘ri-connetterci’, durante e dopo il lockdown, dando alla luce la registrazione del canto Parliamo Sempre di don Paolo Lanzoni.
Il brano, ispirato al Commento di Ambrogio a Sal. 37 (36), riprende il tema della diffusione del messaggio cristiano attraverso una doppia esortazione, che non esalta tanto la prospettiva ‘individuale’ della meditazione (come si legge in Sal. 1, 2, per cui è beato chi «medita giorno e notte» la legge del Signore), quanto quella ‘relazionale’ del parlare («chi riecheggia i suoi discorsi…», dice infatti Sant’Ambrogio). L’esortazione, per certi versi, è anche un’affermazione, poiché implica che l’identità stessa del cristiano si fondi sul parlare sempre del Signore. Dire che «noi parliamo sempre» significa, infatti, affermare che i cristiani possono riconoscersi nell’appartenenza ad una realtà comune (un noi) in quanto facciano entrare il Signore nei loro discorsi. Registrare questa composizione ‘in differita’ ci ha permesso, credo, di interrogarci su quanto sia importante e, al contempo, difficile instaurare un legame, una complicità, una collaborazione (cum-laborare, una ‘fatica da fare insieme’), per poter ‘parlare’ del Signore in questo tempo.
Nel testo del brano, la Parola di Dio è, fra le altre cose, liberazione («parola che ci libera») e conforto («parola che conforta»), termini sui quali può essere utile riflettere in quanto trasmettono molto bene l’importanza della relazione nella testimonianza della Parola. L’uso del verbo liberare, infatti, non evoca tanto la situazione di chi sia già libero, quanto piuttosto quella di chi non è libero, ma è liberato da qualcun altro nell’ambito di un rapporto fondato su una logica di gratuità (che non per nulla è ‘parente’ di grazia). Anche la prospettiva del conforto, o della consolazione, assume, per un verso, la situazione di ‘debolezza’ che riguarda tutti noi e, per altro verso, l’intervento di una forza esterna e ‘altra’ da noi, che ci dona la ‘forza’ di cui abbiamo bisogno. Lo stesso termine confortare ‘contiene’, nella radice fortis, questo nucleo di significato, per cui la forza non è qualcosa che si possiede a priori, ma è un dono che si riceve nell’ambito di una relazione. La dinamica del conforto potrebbe rappresentare, in un certo senso, il presupposto o la condizione di possibilità della nostra esperienza di Dio, poiché solo attraverso una relazione in cui ci affidiamo all’altro possiamo vivere nel concreto il significato e l’effetto della Parola. La stessa idea, d’altronde, si può intravvedere in una delle più importanti composizioni della musica occidentale – giacché di musica stiamo parlando –, il Messiah di G. F. Handel, oratorio dedicato alla venuta, alla passione e al trionfo di Cristo sulla morte, il cui testo si apre con un celebre verso del Profeta Isaia: «Consolate» (Comfort ye, da Is., 40, 1). La Parola di Dio si compie, dunque, anzitutto nella logica del conforto e, pertanto, ha bisogno di un contesto relazionale: noi coristi, infatti, avevamo bisogno di cercare una forma di relazione per poter cantare la Parola e, dunque, parlare del Signore. Era necessario trovare un linguaggio comune (l’accompagnamento al pianoforte, lo spartito, il tempo, la video-guida del direttore) per poter recuperare quel legame ‘corale’ nell’inevitabile distanza che ci separava.
Entrare in relazione significa, dunque, aprirsi alla possibilità di costruire un discorso, entro il quale la Parola di Dio può diffondersi e, come dice San Paolo, «trasformarci» (1Cor., 15, 51; Rom., 12, 2). Dio entra nel nostro ordine del discorso (per usare un termine caro ai sociologi), nel nostro mondo di concetti, idee, criteri e motivazioni, senza alcuna irruzione ‘violenta’. Eppure, il Suo ingresso lascia segni evidenti: quando noi facciamo entrare il Signore, il nostro discorso viene ‘sconvolto’ dalla Sua presenza. Non è un caso se, al termine di ogni ritornello in Parliamo Sempre, la ‘nota’ del Signore (sulla quale cade la parola «Lui») è la ‘modale’, quella che definisce il modo maggiore del brano e senza la quale l’armonia resterebbe ‘sospesa’: la presenza di Dio incide dunque sensibilmente sul carattere del nostro canto. Peraltro, si può notare come, in coda, quella stessa nota venga tenuta fin quasi alla fine del brano e non ‘risolva’, come forse l’orecchio si aspetterebbe, su un’altra nota che dia un maggior senso di conclusione, così da far sembrare che il brano sia destinato a proseguire. D’altronde, potremmo dire: non è forse così che opera il Signore? Il suo ingresso nella nostra vita, nel nostro discorso, non si compie in un arco di tempo definito o ‘con-chiuso’, ma trasforma per sempre la nostra mente e il nostro cuore. Proprio perché accompagna tutta la nostra esistenza, quello del Signore è un canto che non vuole mai concludersi.
Pier Giuseppe Puggioni, corista